Tutto quello che è successo dopo alcuni dei più noti casi di cronaca nera italiana. Una storia ogni mese, il primo del mese. Un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
Giarre, 17 ottobre 1980
Ogni due mesi c’è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post.
Il 17 ottobre 1980 due ragazzi scomparvero a Giarre, in provincia di Catania: in città li chiamavano “gli ziti”, i fidanzati. Erano Giorgio Agatino Giammona, di 25 anni, e Antonio Galatola, di 15. I loro corpi vennero ritrovati il 31 ottobre in una zona, la Vigna del Principe, che era stata perlustrata nei giorni precedenti senza risultati. I giornali parlarono inizialmente di un doppio suicidio con il veleno. Dall’autopsia emerse che invece erano entrambi morti per colpi di pistola alla testa. Si parlò allora di omicidio-suicidio: il più grande, Giorgio Agatino Giammona, che in città era definito "puppu cu bullu", e cioè omosessuale patentato, aveva, secondo le cronache, ucciso Antonio Galatola per poi spararsi.
La pistola venne però ritrovata distante dai corpi, parzialmente interrata. Dovette essere esclusa quindi anche l’ipotesi dell’omicidio-suicidio. Il giorno dei funerali, separati per volere delle famiglie, ci fu una confessione: Ciccio Messina, tredicenne, nipote di Galatola, disse di aver sparato ai due ragazzi e che erano stati loro stessi a chiedergli di farlo. Poi Messina ritrattò, disse che era stato obbligato a confessare ma le indagini vennero comunque dichiarate chiuse. Anche se lo stesso magistrato a cui per primo era stato assegnato il caso aveva molti dubbi sulla sua ricostruzione. Ciccio Messina aveva meno di 14 anni e quindi non era imputabile.
Quel delitto provocò una forte reazione del movimento per i diritti delle coppie omosessuali e proprio dopo i fatti di Giarre nacque, in Sicilia, l’Arcigay che divenne più tardi movimento nazionale.
In città, invece, di Giorgio Agatino Giammona e di Antonio Galatola non si parlò più. Solo recentemente è emersa fortemente una nuova ipotesi. Quello dei due ragazzi sarebbe stato un delitto omofobo ma anche d’onore. Qualcuno, all’interno delle due famiglie, non sopportava che Giorgio e Antonio si comportassero come una coppia, addirittura andando in giro mano nella mano, gettando così disonore sulle famiglie stesse. E Ciccio Messina sarebbe stato solo il capro espiatorio da sacrificare, perché non processabile.
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10/10/2024 • 9 minutes, 57 seconds
Foligno, 1992-1993 - Prima parte
Tra il 1992 e il 1993 due delitti crearono in Italia forte emozione e paura. Avvennero in Umbria, nella zona di Foligno. Il 4 ottobre 1992 venne assassinato un bambino di quattro anni, Simone Allegretti; il 7 agosto 1993 un tredicenne, Lorenzo Paolucci.
Dopo il primo delitto l’assassino inviò lettere alla polizia, sfidandola e annunciando che avrebbe ucciso ancora. Si firmava autodefinendosi “il mostro”.
Le indagini furono difficili, non c’erano tracce, né prove, nessuno aveva visto nulla. Dopo il primo omicidio un ragazzo della provincia di Milano si autoaccusò: diede indicazioni realistiche su ciò che aveva fatto. Per 15 giorni le indagini si fermarono fino a che si capì che quel ragazzo si era inventato tutto. L’aveva fatto, disse, per attirare l’attenzione della ex fidanzata.
Il vero assassino fu preso dopo il secondo delitto. Lasciò questa volta numerose tracce che portarono fino a lui. Si chiamava Luigi Chiatti, quando lo fermarono disse: «Io sono un bravo boy scout».
Confessò quasi subito ma soprattutto, durante gli interrogatori, mise sé stesso al centro di tutto, parlando della sua vita (aveva trascorso i primi sette anni in un istituto per l’infanzia ed era stato adottato poi da una famiglia di Foligno), e dei suoi problemi, quasi giustificando e banalizzando ciò che aveva fatto. Aveva un piano, rapire dei bambini e vivere con loro per sette anni.
Senza mai scendere nei particolari dei due delitti, la storia degli omicidi di Foligno racconta di come segnali evidenti presenti nei comportamenti di Luigi Chiatti vennero ignorati, di come si svolsero le perizie psichiatriche e di come, al centro dei processi, ci furono proprio quelle perizie, molto contrastanti, sulla sua capacità di intendere e di volere. Luigi Chiatti ha finito di scontare la sua pena nel 2015 ma da allora è stato trasferito in una rems, una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza. I giudici non gli hanno mai concesso di tornare libero: viene ancora oggi giudicato “socialmente pericoloso”.
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10/1/2024 • 44 minutes, 6 seconds
Foligno, 1992-1993 - Seconda parte
Tra il 1992 e il 1993 due delitti crearono in Italia forte emozione e paura. Avvennero in Umbria, nella zona di Foligno. Il 4 ottobre 1992 venne assassinato un bambino di quattro anni, Simone Allegretti; il 7 agosto 1993 un tredicenne, Lorenzo Paolucci.
Dopo il primo delitto l’assassino inviò lettere alla polizia, sfidandola e annunciando che avrebbe ucciso ancora. Si firmava autodefinendosi “il mostro”.
Le indagini furono difficili, non c’erano tracce, né prove, nessuno aveva visto nulla. Dopo il primo omicidio un ragazzo della provincia di Milano si autoaccusò: diede indicazioni realistiche su ciò che aveva fatto. Per 15 giorni le indagini si fermarono fino a che si capì che quel ragazzo si era inventato tutto. L’aveva fatto, disse, per attirare l’attenzione della ex fidanzata.
Il vero assassino fu preso dopo il secondo delitto. Lasciò questa volta numerose tracce che portarono fino a lui. Si chiamava Luigi Chiatti, quando lo fermarono disse: «Io sono un bravo boy scout».
Confessò quasi subito ma soprattutto, durante gli interrogatori, mise sé stesso al centro di tutto, parlando della sua vita (aveva trascorso i primi sette anni in un istituto per l’infanzia ed era stato adottato poi da una famiglia di Foligno), e dei suoi problemi, quasi giustificando e banalizzando ciò che aveva fatto. Aveva un piano, rapire dei bambini e vivere con loro per sette anni.
Senza mai scendere nei particolari dei due delitti, la storia degli omicidi di Foligno racconta di come segnali evidenti presenti nei comportamenti di Luigi Chiatti vennero ignorati, di come si svolsero le perizie psichiatriche e di come, al centro dei processi, ci furono proprio quelle perizie, molto contrastanti, sulla sua capacità di intendere e di volere. Luigi Chiatti ha finito di scontare la sua pena nel 2015 ma da allora è stato trasferito in una rems, una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza. I giudici non gli hanno mai concesso di tornare libero: viene ancora oggi giudicato “socialmente pericoloso”.
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10/1/2024 • 52 minutes, 36 seconds
Roma, 9 maggio 1997 - Prima parte
Il 9 maggio 1997 poco dopo le 11:40 Marta Russo, studentessa ventiduenne, venne colpita alla testa da un proiettile mentre camminava all’interno dell’università La Sapienza, di Roma, dove studiava Giurisprudenza. Morì cinque giorni dopo.
Le due nuove puntate di Indagini raccontano che cosa avvenne nei giorni e nelle settimane successive a quel delitto: la ricerca di chi aveva sparato, da dove e perché. L’arma del delitto non venne trovata e non fu individuato il movente. La ricostruzione della traiettoria del proiettile fu estremamente complessa: era impossibile stabilire l’esatta posizione della testa della ragazza quando fu colpita. Si ricorse a una ricostruzione in 3D realizzata nei laboratori della polizia scientifica.
La perizia chiamata Stub individuò particelle apparentemente riconducibili agli elementi di innesco di uno sparo sul davanzale di una finestra dell’istituto di Filosofia del Diritto. Quelle perizie furono però di fatto cancellate dal processo per decisione della Corte di Cassazione. Ma soprattutto Indagini racconta il percorso cronologico delle testimonianze mutevoli che portarono all’arresto di due assistenti dell’istituto, Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro. Quelle testimonianze, di tre persone, furono molto contestate durante il processo e suscitarono forti polemiche per i metodi usati durante gli interrogatori.
Scattone e Ferraro, che si sono sempre dichiarati innocenti, furono condannati per omicidio colposo e per favoreggiamento. L’arma del delitto non è mai stata trovata, il movente mai individuato.
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9/1/2024 • 54 minutes, 27 seconds
Roma, 9 maggio 1997 - Seconda parte
Il 9 maggio 1997 poco dopo le 11:40 Marta Russo, studentessa ventiduenne, venne colpita alla testa da un proiettile mentre camminava all’interno dell’università La Sapienza, di Roma, dove studiava Giurisprudenza. Morì cinque giorni dopo.
Le due nuove puntate di Indagini raccontano che cosa avvenne nei giorni e nelle settimane successive a quel delitto: la ricerca di chi aveva sparato, da dove e perché. L’arma del delitto non venne trovata e non fu individuato il movente. La ricostruzione della traiettoria del proiettile fu estremamente complessa: era impossibile stabilire l’esatta posizione della testa della ragazza quando fu colpita. Si ricorse a una ricostruzione in 3D realizzata nei laboratori della polizia scientifica.
La perizia chiamata Stub individuò particelle apparentemente riconducibili agli elementi di innesco di uno sparo sul davanzale di una finestra dell’istituto di Filosofia del Diritto. Quelle perizie furono però di fatto cancellate dal processo per decisione della Corte di Cassazione. Ma soprattutto Indagini racconta il percorso cronologico delle testimonianze mutevoli che portarono all’arresto di due assistenti dell’istituto, Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro. Quelle testimonianze, di tre persone, furono molto contestate durante il processo e suscitarono forti polemiche per i metodi usati durante gli interrogatori.
Scattone e Ferraro, che si sono sempre dichiarati innocenti, furono condannati per omicidio colposo e per favoreggiamento. L’arma del delitto non è mai stata trovata, il movente mai individuato.
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9/1/2024 • 1 hour, 7 minutes, 13 seconds
Roma, 1943-2012 - Trailer
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Il 6 maggio 1994 l’emittente televisiva americana Abc mandò in onda un’intervista a un cittadino tedesco che, negli anni della Seconda Guerra Mondiale, era stato a Roma capitano della Gestapo, la polizia delle SS. Quell’uomo si chiamava Erich Priebke, viveva in Argentina dal 1948, a San Carlos de Bariloche, ai piedi delle Ande. L’intervista fu ripresa dai telegiornali italiani: un procuratore militare, Antonino Intelisano, richiamò dagli archivi il fascicolo che riguardava quell’ex ufficiale nazista scoprendo che su di lui pendeva un mandato d’arresto per l’uccisione, il 24 marzo 1944, di 335 cittadini italiani, assassinati nelle cave di pozzolana, conosciute come Fosse Ardeatine.
Dopo una difficile controversia con la giustizia argentina, Priebke fu estradato in Italia. Seguì un processo davanti al tribunale militare in cui si discusse a lungo attorno alla frase “Ho solo eseguito gli ordini” con cui Priebke, come prima di lui avevano fatto altri ex criminali di guerra nazisti, cercò di giustificare le proprie azioni. Ma nel dibattito che accompagnò quel processo ci fu anche il tentativo di addossare la colpa di ciò che avvenne alle fosse ardeatine ai partigiani che il giorno prima aveva attaccato una colonna di SS del battaglione Bozen in servizio nel centro di Roma. Furono riproposte narrazioni false attorno a quegli avvenimenti. In quel processo si parlò di interrogatori e torture avvenute nella sede delle SS a Roma, in via Tasso, di legittimità delle rappresaglie in tempo di guerra, di catene di comando. Priebke affermò in dichiarazioni e interviste che i campi di sterminio non fossero mai esistiti e che i 335 uomini uccisi alle Fosse Ardeatine fossero in larga parte “terroristi”.
I processi si conclusero, dopo lunghe e controverse vicende, con la condanna all’ergastolo di Priebke. L’ex capitano della gestapo morì a Roma nel 2012. È sepolto in un luogo segreto in una tomba senza nome.
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8/10/2024 • 9 minutes, 30 seconds
Genova, maggio 1971 – Prima parte
Il 6 maggio 1971, a Genova, scomparve una ragazza di 13 anni, Milena Sutter. Apparteneva a una famiglia di noti imprenditori svizzeri trasferitasi da anni in Italia. Frequentava la scuola svizzera: quel giorno uscì dalle lezioni nel pomeriggio, come accadeva ogni giorno, ma non arrivò mai a casa. La famiglia pensò subito a un sequestro di persona. Il padre della ragazza era sesto nella classifica dei contribuenti della città. In Italia, proprio in quegli anni, si stava sviluppando la pratica criminale dei sequestri di persona a scopo di estorsione: saranno centinaia negli ani seguenti. Nel solo 1977, l’anno peggiore, i sequestri furono 75, più di uno alla settimana.
La telefonata con la richiesta di riscatto arrivò il giorno successivo alla scomparsa. Una voce registrata chiese 50 milioni di lire per rilasciare la ragazza. In quel momento Milena Sutter, così stabilì il processo, era già morta. Il suo corpo venne ritrovato in mare il 20 maggio, nella baia di Priaruggia. Attorno alla vita le era stata legata una cintura da sub con pesi da un chilo.
Lo stesso giorno venne arrestato un venticinquenne, Lorenzo Bozano, che passò alle cronache come “il biondino della spider rossa”. Nei pressi della villa dei Sutter e vicino alla scuola svizzera era stata notata infatti una Alfa Romeo Giulietta spider rossa con molte ammaccature. L’auto venne individuata e venne individuato anche il proprietario, Bozano, appunto, riconosciuto da alcuni testimoni come il ragazzo che spesso si aggirava intorno alla villa dove viveva la famiglia della ragazza, in viale Mosto. Contro fi lui furono raccolti molti indizi, alcuni estremamente importanti, ma non ci fu mai la cosiddetta “prova regina”.
Il caso Sutter suscitò molta emozione, il processo fu seguitissimo, da più parti si tornò a parlare di pena di morte in Italia. Bozano, che si è sempre dichiarato innocente, fu assolto in primo grado e poi condannato all’ergastolo nel processo d’appello, condanna confermata dalla Corte di Cassazione. Fu come detto, un processo indiziario, con moltissimi indizi convergenti ma senza una prova definitiva e con alcune domande che, anche a distanza di anni, non hanno mai avuto una risposta.
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8/1/2024 • 46 minutes, 3 seconds
Genova, maggio 1971 – Seconda parte
Il 6 maggio 1971, a Genova, scomparve una ragazza di 13 anni, Milena Sutter. Apparteneva a una famiglia di noti imprenditori svizzeri trasferitasi da anni in Italia. Frequentava la scuola svizzera: quel giorno uscì dalle lezioni nel pomeriggio, come accadeva ogni giorno, ma non arrivò mai a casa. La famiglia pensò subito a un sequestro di persona. Il padre della ragazza era sesto nella classifica dei contribuenti della città. In Italia, proprio in quegli anni, si stava sviluppando la pratica criminale dei sequestri di persona a scopo di estorsione: saranno centinaia negli ani seguenti. Nel solo 1977, l’anno peggiore, i sequestri furono 75, più di uno alla settimana.
La telefonata con la richiesta di riscatto arrivò il giorno successivo alla scomparsa. Una voce registrata chiese 50 milioni di lire per rilasciare la ragazza. In quel momento Milena Sutter, così stabilì il processo, era già morta. Il suo corpo venne ritrovato in mare il 20 maggio, nella baia di Priaruggia. Attorno alla vita le era stata legata una cintura da sub con pesi da un chilo.
Lo stesso giorno venne arrestato un venticinquenne, Lorenzo Bozano, che passò alle cronache come “il biondino della spider rossa”. Nei pressi della villa dei Sutter e vicino alla scuola svizzera era stata notata infatti una Alfa Romeo Giulietta spider rossa con molte ammaccature. L’auto venne individuata e venne individuato anche il proprietario, Bozano, appunto, riconosciuto da alcuni testimoni come il ragazzo che spesso si aggirava intorno alla villa dove viveva la famiglia della ragazza, in viale Mosto. Contro fi lui furono raccolti molti indizi, alcuni estremamente importanti, ma non ci fu mai la cosiddetta “prova regina”.
Il caso Sutter suscitò molta emozione, il processo fu seguitissimo, da più parti si tornò a parlare di pena di morte in Italia. Bozano, che si è sempre dichiarato innocente, fu assolto in primo grado e poi condannato all’ergastolo nel processo d’appello, condanna confermata dalla Corte di Cassazione. Fu come detto, un processo indiziario, con moltissimi indizi convergenti ma senza una prova definitiva e con alcune domande che, anche a distanza di anni, non hanno mai avuto una risposta.
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8/1/2024 • 58 minutes, 37 seconds
Milano, maggio-dicembre 2014 - Prima parte
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Il 28 dicembre 2014, a Milano, un ragazzo, Pietro Barbini, venne aggredito da una persona che gli gettò addosso dell’acido. Fu colpito al viso, al torace e alle mani. La ragazza che lo aggredì non era sola. Un suo complice venne fermato subito e poi arrestato. La ragazza fu fermata qualche ora dopo e pochi giorni più tardi fu individuato un terzo complice. Da quell’aggressione gli inquirenti risalirono ad altre, avvenute nei mesi precedenti, sempre a Milano.
Questa è la storia di quella che i giornali chiamarono la "coppia dell’acido", una definizione che però non è corretta: a compiere quelle aggressioni furono tre persone, una coppia, Martina Levato e Alexander Boettcher, e un loro complice, Andrea Magnani. Due delle persone aggredite riportarono lesioni estremamente gravi e sono stati sottoposti ad anni di interventi e cure. Un altro subì un tentativo di evirazione.
In un caso gli aggressori sbagliarono persona e aggredirono con l’acido un ragazzo che non conoscevano, perché la coppia aveva deciso che la ragazza dovesse essere purificata da tutte le relazioni precedenti e che coloro che avevano avuto rapporti con lei dovessero essere in qualche modo cancellati, o almeno dovesse esserne cancellata l’identità.
Vitriolage, si chiama tecnicamente così l’aggressione con l’acido, una pratica criminale molto diffusa in alcuni paesi mediorientali ma che conta numerose vittime anche in Italia.
Questa è anche la storia di processi in cui fu difficile stabilire le singole responsabilità e se esisteva, tra gli aggressori, chi aveva avuto un ruolo di guida, di ispiratore. Ci furono perizie psichiatriche che si conclusero stabilendo la loro capacità di intendere e di volere. Ed è la storia, lunga, di come e perché venne decisa dal tribunale per i minorenni l’adozione del bambino della coppia, nato poche settimane dopo gli arresti.
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7/1/2024 • 46 minutes, 29 seconds
Milano, maggio-dicembre 2014 - Seconda parte
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Il 28 dicembre 2014, a Milano, un ragazzo, Pietro Barbini, venne aggredito da una persona che gli gettò addosso dell’acido. Fu colpito al viso, al torace e alle mani. La ragazza che lo aggredì non era sola. Un suo complice venne fermato subito e poi arrestato. La ragazza fu fermata qualche ora dopo e pochi giorni più tardi fu individuato un terzo complice. Da quell’aggressione gli inquirenti risalirono ad altre, avvenute nei mesi precedenti, sempre a Milano.
Questa è la storia di quella che i giornali chiamarono la "coppia dell’acido", una definizione che però non è corretta: a compiere quelle aggressioni furono tre persone, una coppia, Martina Levato e Alexander Boettcher, e un loro complice, Andrea Magnani. Due delle persone aggredite riportarono lesioni estremamente gravi e sono stati sottoposti ad anni di interventi e cure. Un altro subì un tentativo di evirazione.
In un caso gli aggressori sbagliarono persona e aggredirono con l’acido un ragazzo che non conoscevano, perché la coppia aveva deciso che la ragazza dovesse essere purificata da tutte le relazioni precedenti e che coloro che avevano avuto rapporti con lei dovessero essere in qualche modo cancellati, o almeno dovesse esserne cancellata l’identità.
Vitriolage, si chiama tecnicamente così l’aggressione con l’acido, una pratica criminale molto diffusa in alcuni paesi mediorientali ma che conta numerose vittime anche in Italia.
Questa è anche la storia di processi in cui fu difficile stabilire le singole responsabilità e se esisteva, tra gli aggressori, chi aveva avuto un ruolo di guida, di ispiratore. Ci furono perizie psichiatriche che si conclusero stabilendo la loro capacità di intendere e di volere. Ed è la storia, lunga, di come e perché venne decisa dal tribunale per i minorenni l’adozione del bambino della coppia, nato poche settimane dopo gli arresti.
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7/1/2024 • 49 minutes, 12 seconds
Brescia, 28 maggio 1974 - Trailer
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In piazza della Loggia, a Brescia, la bomba esplose alle 10.12. Alle 11.45 qualcuno diede ordine ai vigili del fuoco di ripulire l’asfalto con gli idranti. Le tracce dell’esplosivo e altri possibili reperti furono trascinati dall’acqua nei tombini. Un magistrato, qualche anno, dopo, disse che quell’ordine fu il primo depistaggio messo in atto in questa vicenda. Era il 12 maggio 1974.
Quella mattina in piazza era in corso una manifestazione antifascista indetta contro i numerosi atti terroristici neri che avevano colpito la provincia nelle settimane precedenti. L’esplosione uccise sei persone, altre due morirono in ospedale nei giorni seguenti. I feriti furono oltre 100. Qualche ora dopo lo scoppio della bomba nell’ospedale cittadino arrivò la telefonata di un uomo che disse di essere un dirigente del ministero dell’Interno. Diede disposizione che tutti i reperti trovati sugli indumenti delle vittime venissero radunati e consegnati a una persona che sarebbe arrivata in ospedale di lì a poco. Quella persona arrivò, prese in consegna le buste dei reperti che poi scomparvero. Fu il secondo depistaggio.
La storia delle indagini sulla strage di Brescia del 1974 è stata accompagnata, come è avvenuto per altre stragi compiute in Italia, da coperture, complicità, interventi dei servizi segreti. Fu chiara subito l’origine neofascista di quell’attentato ma le indagini si indirizzarono verso piccoli fascistelli locali, spesso ragazzini, e delinquenti comuni. Eppure, si scoprì solo anni più tardi che capi del Sid, l’allora Servizio informazioni difesa, il servizio segreto militare, sapevano molto di quella bomba, addirittura erano probabilmente a conoscenza prima di ciò che sarebbe avvenuto in piazza della Loggia. Quarant’anni più tardi per quell’attentato furono condannati due esponenti veneti dell’organizzazione neofascista Ordine Nuovo, Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, quest’ultimo, oltre che militante neofascista, anche informatore stipendiato dai servizi segreti. Furono giovani magistrati a scoprire che quell’attentato era stato deciso, organizzato e realizzato dalla cellula veneta del gruppo terroristico, lo stesso coinvolto nella strage di piazza Fontana, del 1969, a Milano. Gli stessi magistrati scoprirono il ruolo avuto da servizi segreti e funzionari dello Stato in quella vicenda. Le indagini su ciò che avvenne a Brescia il 18 maggio 1974 continuano ancora oggi. Due persone, che oggi vivono all’estero, sono state rinviate a giudizio per aver avuto un ruolo in quell’attentato.
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6/10/2024 • 6 minutes, 54 seconds
Napoli, 2 luglio 1983 - Prima parte
Nel tardo pomeriggio del 2 luglio 1983 due bambine, Nunzia Munizzi e Barbara Sellini, di dieci e sette anni, scomparvero nel rione Incis del quartiere di Ponticelli, a Napoli. Vennero ritrovate la mattina dopo. Erano state assassinate e i loro corpi bruciati.
Di quel duplice omicidio, terribile, sarebbe doloroso e inutile ricordare i molti particolari. Ma è importante ripercorrere cosa avvenne dopo, le indagini veloci e condotte con una ovvia, forte pressione mediatica e dell’opinione pubblica, i processi, le tante ritrattazioni e incongruenze dei testimoni, le perizie scientifiche mai effettuate.
Per quel delitto vennero condannati all’ergastolo tre ragazzi ventenni, anche loro abitanti del rione Incis di Ponticelli. Si sono sempre dichiarati innocenti e molti altri sono sempre stati convinti della loro estraneità ai fatti. Nel 2022 anche la commissione antimafia ha svolto un’inchiesta, concludendo che tanti elementi suscitavano pesanti dubbi e che si sarebbe dovuto continuare a indagare.
I tre di Ponticelli, come vennero definiti, oggi sono liberi, dopo aver trascorso 26 anni in carcere. Continuano a chiedere la revisione del processo, affermando che in realtà il vero assassino di Nunzia Munizzi e Barbara Sellini non sia mai stato preso.
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6/1/2024 • 45 minutes, 55 seconds
Napoli, 2 luglio 1983 - Seconda parte
Nel tardo pomeriggio del 2 luglio 1983 due bambine, Nunzia Munizzi e Barbara Sellini, di dieci e sette anni, scomparvero nel rione Incis del quartiere di Ponticelli, a Napoli. Vennero ritrovate la mattina dopo. Erano state assassinate e i loro corpi bruciati.
Di quel duplice omicidio, terribile, sarebbe doloroso e inutile ricordare i molti particolari. Ma è importante ripercorrere cosa avvenne dopo, le indagini veloci e condotte con una ovvia, forte pressione mediatica e dell’opinione pubblica, i processi, le tante ritrattazioni e incongruenze dei testimoni, le perizie scientifiche mai effettuate.
Per quel delitto vennero condannati all’ergastolo tre ragazzi ventenni, anche loro abitanti del rione Incis di Ponticelli. Si sono sempre dichiarati innocenti e molti altri sono sempre stati convinti della loro estraneità ai fatti. Nel 2022 anche la commissione antimafia ha svolto un’inchiesta, concludendo che tanti elementi suscitavano pesanti dubbi e che si sarebbe dovuto continuare a indagare.
I tre di Ponticelli, come vennero definiti, oggi sono liberi, dopo aver trascorso 26 anni in carcere. Continuano a chiedere la revisione del processo, affermando che in realtà il vero assassino di Nunzia Munizzi e Barbara Sellini non sia mai stato preso.
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6/1/2024 • 1 hour, 6 minutes, 42 seconds
Roma, 10 luglio 1991 - Prima parte
Sono aperte le iscrizioni alle “10 lezioni sui podcast” del Post, dieci incontri online per chi vuole capire meglio come funzionano i podcast, dall’idea alla pubblicazione. Due volte a settimana, in diretta, insieme a Stefano Nazzi, Francesco Costa e altri autori e producer. Ci si può iscrivere fino al 27 maggio. Trovi altre informazioni a questo link o scrivendo a [email protected]
Il 10 luglio 1991 intorno alle nove del mattino, Alberica Filo della Torre venne assassinata all’interno della sua villa, nel quartiere romano dell’Olgiata. In casa in quel momento c’erano i figli bambini della donna e alcune persone che lavoravano nella villa.
Il delitto suscitò un enorme interesse da parte dei media. Alberica Filo della Torre era di origini nobili, l’omicidio era avvenuto all’interno di un complesso, quello dell’Olgiata, considerato esclusivo e abitato da persone estremamente facoltose. I giornali parlarono di delitto «tra i sangue blu».
Le indagini appurarono da subito che il marito della donna, Pietro Mattei, aveva un alibi riscontrabile e solido. Nonostante questo le illazioni sulla stampa furono continue e durarono molti anni. Così come furono lunghe e spesso apparirono caotiche le indagini. Ci furono vari sospettati ma senza che ci fosse mai un riscontro concreto. La vicenda, tre anni dopo il delitto, si incrociò con un’altra indagine, quella sul cosiddetto scandalo dei fondi neri del Sisde, il servizio segreto italiano. Ma anche quella pista si rivelò poi inconsistente.
Più volte si parlò di archiviazione dell’indagine ma Pietro Mattei, e con lui i suoi figli, si opposero sempre insistendo anzi sul proseguimento e sull'ampliamento dell’indagine che, grazie a nuove tecniche di investigazione scientifica, avrebbero potuto individuare nuovi elementi importanti.
La soluzione del caso arrivò però solo 19 anni dopo il delitto. Ed era sempre stata presente tra i reperti acquisiti in fase d’indagine. La registrazione di un’intercettazione telefonica che conteneva elementi fondamentali per l’individuazione del colpevole non era mai stata, inspiegabilmente, ascoltata. E alcune tracce biologiche lasciate sul luogo del delitto erano state prima ignorate e poi analizzate solo superficialmente. Quelle tracce rappresentarono una conferma a ciò che era contenuto nell’intercettazione telefonica.
A distanza di anni dal delitto Pietro Mattei e i suoi figli accusarono chi aveva condotto le indagini di macroscopici errori.
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5/1/2024 • 46 minutes, 51 seconds
Roma, 10 luglio 1991 - Seconda parte
Sono aperte le iscrizioni alle “10 lezioni sui podcast” del Post, dieci incontri online per chi vuole capire meglio come funzionano i podcast, dall’idea alla pubblicazione. Due volte a settimana, in diretta, insieme a Stefano Nazzi, Francesco Costa e altri autori e producer. Ci si può iscrivere fino al 27 maggio. Trovi altre informazioni a questo link o scrivendo a [email protected]
Il 10 luglio 1991 intorno alle nove del mattino, Alberica Filo della Torre venne assassinata all’interno della sua villa, nel quartiere romano dell’Olgiata. In casa in quel momento c’erano i figli bambini della donna e alcune persone che lavoravano nella villa.
Il delitto suscitò un enorme interesse da parte dei media. Alberica Filo della Torre era di origini nobili, l’omicidio era avvenuto all’interno di un complesso, quello dell’Olgiata, considerato esclusivo e abitato da persone estremamente facoltose. I giornali parlarono di delitto «tra i sangue blu».
Le indagini appurarono da subito che il marito della donna, Pietro Mattei, aveva un alibi riscontrabile e solido. Nonostante questo le illazioni sulla stampa furono continue e durarono molti anni. Così come furono lunghe e spesso apparirono caotiche le indagini. Ci furono vari sospettati ma senza che ci fosse mai un riscontro concreto. La vicenda, tre anni dopo il delitto, si incrociò con un’altra indagine, quella sul cosiddetto scandalo dei fondi neri del Sisde, il servizio segreto italiano. Ma anche quella pista si rivelò poi inconsistente.
Più volte si parlò di archiviazione dell’indagine ma Pietro Mattei, e con lui i suoi figli, si opposero sempre insistendo anzi sul proseguimento e sull'ampliamento dell’indagine che, grazie a nuove tecniche di investigazione scientifica, avrebbero potuto individuare nuovi elementi importanti.
La soluzione del caso arrivò però solo 19 anni dopo il delitto. Ed era sempre stata presente tra i reperti acquisiti in fase d’indagine. La registrazione di un’intercettazione telefonica che conteneva elementi fondamentali per l’individuazione del colpevole non era mai stata, inspiegabilmente, ascoltata. E alcune tracce biologiche lasciate sul luogo del delitto erano state prima ignorate e poi analizzate solo superficialmente. Quelle tracce rappresentarono una conferma a ciò che era contenuto nell’intercettazione telefonica.
A distanza di anni dal delitto Pietro Mattei e i suoi figli accusarono chi aveva condotto le indagini di macroscopici errori.
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5/1/2024 • 45 minutes, 38 seconds
Milano - 18 marzo 1978 - Trailer
Ogni due mesi c’è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post.
Il 18 marzo 1978 due ragazzi di 18 anni, Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, furono assassinati in via Mancinelli, a Milano. Era un sabato, poco prima delle venti. Vennero uccisi con otto colpi di pistola, tutti andati a segno. Iniziò quella sera una storia lunga, con indagini condotte da otto magistrati diversi, spesso impegnati anche in altre inchieste e quindi costretti a dedicarsi alla vicenda solo parzialmente. Indagini fatte inizialmente male, con perizie approssimative e a volte incomplete, testimonianze non raccolte, elementi tralasciati.
È la storia di un immediato e maldestro tentativo di depistaggio. Di reperti incomprensibilmente distrutti, di un collegamento tra Milano, un’altra città lombarda, Cremona, e Roma, perché dagli ambienti dell’estrema destra romana, secondo le ipotesi investigative, sarebbero arrivati gli esecutori dell’omicidio.L’omicidio avvenne in giorni che furono tra i più angoscianti nella storia d’Italia dalla fine della II guerra mondiale. Il 16 marzo, due giorni prima dei fatti di Milano, a Roma era infatti stato sequestrato dalle Brigate Rosse il presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro.Ciò che accadde alle 20 del 18 marzo 1978 in via Mancinelli è anche la storia di una città, di una generazione, di un funerale a cui parteciparono molte decine di migliaia di persone con un coinvolgimento emotivo che tanti non avevano mai visto né provato. Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci erano due ragazzi di sinistra ma non militavano in nessun gruppo, non erano due leader, non erano conosciuti. Frequentavano il centro sociale Leoncavallo ma anche lì non erano due leader, due in vista.
Erano, come dissero le decine di migliaia di ragazzi che parteciparono al funerale, «due come noi, esattamente come noi».Negli anni molti elementi sono emersi, anche grazie a collaboratori di giustizia appartenenti al terrorismo nero. Non c’è mai stata, però, una conclusione giudiziaria della vicenda. Ora, a distanza di tanto tempo, la procura di Milano ha ripreso il filo di quella vicenda aprendo un fascicolo conoscitivo, senza cioè indagati e ipotesi di reato. L’obiettivo è capire se esistono elementi per riaprire ufficialmente le indagini.
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4/10/2024 • 5 minutes, 15 seconds
Roma - 22 giugno 1983 – Prima parte
Ogni due mesi c’è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post.
Emanuela Orlandi uscì di casa tra le 15.30 e le 16 del 22 giugno 1983. Abitava entro le mura vaticane, suo padre era commesso presso il Palazzo Apostolico. Quel giorno ebbe lezioni, come faceva tre volte alla settimana, all’ Istituto Ludovico Da Victoria, associato al Pontificio istituto di musica sacra, in piazza Sant’Apollinare, nel centro di Roma.
Uscì dall’istituto poco prima delle 19, assieme alle sue compagne e ai compagni di corso. Poi nessuno la vide più, almeno ufficialmente.
La storia della scomparsa di Emanuela Orlandi è uno dei casi di cronaca più famosi d’Italia, forse il più intricato, tra i più raccontati.
Ma è anche molto altro. È anche la storia di depistaggi, testimonianze spesso inattendibili, silenzi e reticenze da parte del Vaticano, piste seguite e rivelatesi poi dopo anni assolutamente inconsistenti. È anche la storia di come molti di coloro che sono comparsi in questa storia hanno approfittato della scomparsa di una ragazza di 15 anni, per fini politici, per sviare le indagini o semplicemente, come scrisse una delle magistrate che indagò, per conquistare un quarto d’ora di celebrità.
A distanza ormai di 41 anni dal giorno in cui Emanuela Orlandi scomparve, si può tentare di ripercorrere la vicenda sottolineando gli aspetti più incongrui, le notizie che in realtà non erano notizie, le testimonianze più improbabili, le reticenze di chi probabilmente qualcosa sapeva ma non comunicò mai nulla alla procura incaricata delle indagini, quella romana. Ricostruendo anni di rivelazioni improbabili, ricerche infruttuose, segnalazioni false, tutto mischiato ormai in un grade contenitore nel quale è difficile anche solo orientarsi.
Ben sapendo che troppe volte è stata usata la parola verità, ma quelle verità ancora è nascosta da qualche parte.
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4/1/2024 • 1 hour, 4 minutes, 2 seconds
Roma - 22 giugno 1983 – Seconda parte
Ogni due mesi c’è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post.
Emanuela Orlandi uscì di casa tra le 15.30 e le 16 del 22 giugno 1983. Abitava entro le mura vaticane, suo padre era commesso presso il Palazzo Apostolico. Quel giorno ebbe lezioni, come faceva tre volte alla settimana, all’ Istituto Ludovico Da Victoria, associato al Pontificio istituto di musica sacra, in piazza Sant’Apollinare, nel centro di Roma.
Uscì dall’istituto poco prima delle 19, assieme alle sue compagne e ai compagni di corso. Poi nessuno la vide più, almeno ufficialmente.
La storia della scomparsa di Emanuela Orlandi è uno dei casi di cronaca più famosi d’Italia, forse il più intricato, tra i più raccontati.
Ma è anche molto altro. È anche la storia di depistaggi, testimonianze spesso inattendibili, silenzi e reticenze da parte del Vaticano, piste seguite e rivelatesi poi dopo anni assolutamente inconsistenti. È anche la storia di come molti di coloro che sono comparsi in questa storia hanno approfittato della scomparsa di una ragazza di 15 anni, per fini politici, per sviare le indagini o semplicemente, come scrisse una delle magistrate che indagò, per conquistare un quarto d’ora di celebrità.
A distanza ormai di 41 anni dal giorno in cui Emanuela Orlandi scomparve, si può tentare di ripercorrere la vicenda sottolineando gli aspetti più incongrui, le notizie che in realtà non erano notizie, le testimonianze più improbabili, le reticenze di chi probabilmente qualcosa sapeva ma non comunicò mai nulla alla procura incaricata delle indagini, quella romana. Ricostruendo anni di rivelazioni improbabili, ricerche infruttuose, segnalazioni false, tutto mischiato ormai in un grade contenitore nel quale è difficile anche solo orientarsi.
Ben sapendo che troppe volte è stata usata la parola verità, ma quelle verità ancora è nascosta da qualche parte.
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4/1/2024 • 54 minutes, 3 seconds
Liguria Piemonte, ottobre 1997- aprile 1998 - Prima parte
Ogni due mesi c’è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post.
Tra l’ottobre del 1997 e l’aprile del 1998 Donato Bilancia uccise 17 persone. Assassinò nove uomini e otto donne, tra la Liguria e il Piemonte.
Per molti mesi quei delitti non vennero messi in relazione, indagarono quattro procure diverse. Nonostante alcune indicazioni e una perizia balistica che collegava i primi tre delitti, le indagini proseguirono in direzioni diverse. Nessuno allora pensava che potesse esistere in Italia un assassino seriale con quelle caratteristiche.
Uccise prima per vendetta, poi per sviare le indagini, infine per il puro piacere di farlo. Lo arrestarono grazie a un grave errore che commise ma che fu scoperto solo per un colpo di fortuna. Quando gli inquirenti lo interrogarono per la prima volta erano decisi a contestargli sette omicidi, lui ne confessò 17 rivelando anche che la morte di un uomo, catalogata come morte naturale era stata in realtà un ‘omicidio e che era stato lui a commetterlo.
Bilancia fu sottoposto a numerose perizie psichiatriche e dichiarato capace di intendere e di volere al momento dei fatti.
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3/1/2024 • 50 minutes, 34 seconds
Liguria Piemonte, ottobre 1997- aprile 1998 - Seconda parte
Ogni due mesi c’è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post.
Tra l’ottobre del 1997 e l’aprile del 1998 Donato Bilancia uccise 17 persone. Assassinò nove uomini e otto donne, tra la Liguria e il Piemonte.
Per molti mesi quei delitti non vennero messi in relazione, indagarono quattro procure diverse. Nonostante alcune indicazioni e una perizia balistica che collegava i primi tre delitti, le indagini proseguirono in direzioni diverse. Nessuno allora pensava che potesse esistere in Italia un assassino seriale con quelle caratteristiche.
Uccise prima per vendetta, poi per sviare le indagini, infine per il puro piacere di farlo. Lo arrestarono grazie a un grave errore che commise ma che fu scoperto solo per un colpo di fortuna. Quando gli inquirenti lo interrogarono per la prima volta erano decisi a contestargli sette omicidi, lui ne confessò 17 rivelando anche che la morte di un uomo, catalogata come morte naturale era stata in realtà un ‘omicidio e che era stato lui a commetterlo.
Bilancia fu sottoposto a numerose perizie psichiatriche e dichiarato capace di intendere e di volere al momento dei fatti.
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3/1/2024 • 57 minutes, 54 seconds
Irpinia, 23 novembre 1980 - Trailer
Quella del terremoto in Irpinia è una puntata speciale per le persone abbonate. Se vuoi ascoltarla puoi abbonarti qui.
Il 23 novembre 1980 un forte terremotò colpì la Campania centrale e la Basilicata centro settentrionale. Erano le 19.52, durò 90 secondi. Il sisma ebbe conseguenze durissime soprattutto in Irpinia. Per molte ore non si riuscì a individuare l'esatto epicentro, i soccorsi tardarono, molti comuni restarono isolati per ore, alcuni per giorni. E quando gli aiuti iniziarono ad arrivare mancavano le attrezzature, addirittura i paletti per le tende, le scorte d'acqua.
Le due puntate di Altre Indagini partono da quella sera ma raccontano soprattutto ciò che accadde dopo: la paralisi del sistema di protezione civile, denunciata in diretta televisiva anche dal presidente della Repubblica Sandro Pertini, la mancanza di coordinamento. Ma anche l'enorme supporto dei volontari giunti da tutta Italia che in molti casi sopperirono alla mancanza delle istituzioni.
E poi il dopo: gli sperperi e le ruberie durante la ricostruzione, la presenza della camorra e i patti con i politici, i capannoni industriali costruiti e poi abbandonati, le ville con piscina edificate dove in realtà i progetti prevedevano stalle per animali, le strade costate trenta volte di più di quanto si sarebbe dovuto spendere.
Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi
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2/10/2024 • 7 minutes, 39 seconds
Leno (Brescia), 28 settembre 2002 - Prima parte
Ogni due mesi c’è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post.
Il 28 settembre 2002 una ragazza di 14 anni, Desirèe Piovanelli, scomparve, a Leno, in provincia di Brescia. Il giorno dopo il fratello ricevette un sms: «Non preoccupatevi per me, sono con Tony, voglio stare con lui».
Tony era un ragazzo di Cremona che Desirée Piovanelli aveva conosciuto durante un raduno di Testimoni di Geova, di cui le rispettive famiglie facevano parte. Quel ragazzo però con la scomparsa di Desirée non c’entrava assolutamente nulla. Il messaggio era stato inviato con una scheda telefonica prepagata, acquistata ad agosto in un campeggio di Jesolo. È grazie a quella scheda telefonica che i carabinieri risalirono al nome di un ragazzo di 16 anni, vicino di casa della famiglia Piovanelli, e poi ad altri due, un sedicenne e un quindicenne.
Raccontarono cosa era successo: avevano attirato Desirèe Piovanelli in una cascina diroccata, chiamata Cascina Ermengarda, e lì l’avevano uccisa. Per loro quella ragazza era un’ossessione, di cui parlavano sempre e che avevano tentato invano di frequentare. Non erano però soli quel giorno. Con loro c’era un adulto, un uomo che li aveva aiutati e incitati. L'omicidio di Desirèe Piovanelli fu compiuto da quello che i media, e molti criminologi, chiamano “branco”, un gruppo di ragazzi che si esaltano a vicenda arrivando a compiere atti che, da soli, probabilmente non
commetterebbero. Ed è la storia di un adulto che invece di fermare quei ragazzi assunse il ruolo di leader del gruppo.
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2/1/2024 • 39 minutes, 58 seconds
Leno (Brescia), 28 settembre 2002 - Seconda parte
Ogni due mesi c’è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post.
Il 28 settembre 2002 una ragazza di 14 anni, Desirèe Piovanelli, scomparve, a Leno, in provincia di Brescia. Il giorno dopo il fratello ricevette un sms: «Non preoccupatevi per me, sono con Tony, voglio stare con lui».
Tony era un ragazzo di Cremona che Desirée Piovanelli aveva conosciuto durante un raduno di Testimoni di Geova, di cui le rispettive famiglie facevano parte. Quel ragazzo però con la scomparsa di Desirée non c’entrava assolutamente nulla. Il messaggio era stato inviato con una scheda telefonica prepagata, acquistata ad agosto in un campeggio di Jesolo. È grazie a quella scheda telefonica che i carabinieri risalirono al nome di un ragazzo di 16 anni, vicino di casa della famiglia Piovanelli, e poi ad altri due, un sedicenne e un quindicenne.
Raccontarono cosa era successo: avevano attirato Desirèe Piovanelli in una cascina diroccata, chiamata Cascina Ermengarda, e lì l’avevano uccisa. Per loro quella ragazza era un’ossessione, di cui parlavano sempre e che avevano tentato invano di frequentare. Non erano però soli quel giorno. Con loro c’era un adulto, un uomo che li aveva aiutati e incitati. L'omicidio di Desirèe Piovanelli fu compiuto da quello che i media, e molti criminologi, chiamano “branco”, un gruppo di ragazzi che si esaltano a vicenda arrivando a compiere atti che, da soli, probabilmente non
commetterebbero. Ed è la storia di un adulto che invece di fermare quei ragazzi assunse il ruolo di leader del gruppo.
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2/1/2024 • 51 minutes, 18 seconds
Casalbaroncolo (Parma), 2 marzo 2006 - Prima parte
Ogni due mesi c’è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post.
La sera del 2 marzo 2006, alle 19.45, due uomini entrarono in una casa di Casalbaroncolo, una cascina ristrutturata e isolata alla periferia di Parma. Avevano il volto coperto ed erano armati di una pistola e di un coltello. Legarono tre persone, Paola Pellinghelli, il marito Paolo Onofri e il loro figlio di sette anni, Sebastiano. Se ne andarono portando con loro il figlio più piccolo della coppia, Tommaso, di 17
mesi. Non venne chiesto nessun riscatto, gli investigatori lo definirono da subito un sequestro anomalo. Le indagini si concentrarono molto presto su alcuni muratori che avevano effettuato i lavori di ristrutturazione della cascina. Furono però le perizie
scientifiche a dare agli investigatori un elemento decisivo: sul nastro adesivo utilizzato per legare i membri della famiglia era stata lasciata un’impronta
nitida. Corrispondeva a quella di un pregiudicato, Salvatore Raimondi. Intercettando il suo telefono venne scoperto un collegamento con un uomo, anch’esso pregiudicato, che aveva partecipato ai lavori nella casa degli Onofri: Mario Alessi. Raimondi, fermato e interrogato, ammise di aver partecipato al sequestro e disse che il bambino era stato ucciso dal suo complice immediatamente dopo il sequestro. Alessi addossò invece la responsabilità a Raimondi. Per il sequestro e l’omicidio furono condannati Raimondi, Alessi e Antonella Conserva, la moglie di Alessi. Non è mai stato del tutto chiarito quale fosse il reale obiettivo dei tre.
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1/1/2024 • 42 minutes, 13 seconds
Casalbaroncolo (Parma), 2 marzo 2006 - Seconda parte
Ogni due mesi c’è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post.
La sera del 2 marzo 2006, alle 19.45, due uomini entrarono in una casa di Casalbaroncolo, una cascina ristrutturata e isolata alla periferia di Parma. Avevano il volto coperto ed erano armati di una pistola e di un coltello. Legarono tre persone, Paola Pellinghelli, il marito Paolo Onofri e il loro figlio di sette anni, Sebastiano. Se ne andarono portando con loro il figlio più piccolo della coppia, Tommaso, di 17
mesi. Non venne chiesto nessun riscatto, gli investigatori lo definirono da subito un sequestro anomalo. Le indagini si concentrarono molto presto su alcuni muratori che avevano effettuato i lavori di ristrutturazione della cascina. Furono però le perizie
scientifiche a dare agli investigatori un elemento decisivo: sul nastro adesivo utilizzato per legare i membri della famiglia era stata lasciata un’impronta
nitida. Corrispondeva a quella di un pregiudicato, Salvatore Raimondi. Intercettando il suo telefono venne scoperto un collegamento con un uomo, anch’esso pregiudicato, che aveva partecipato ai lavori nella casa degli Onofri: Mario Alessi. Raimondi, fermato e interrogato, ammise di aver partecipato al sequestro e disse che il bambino era stato ucciso dal suo complice immediatamente dopo il sequestro. Alessi addossò invece la responsabilità a Raimondi. Per il sequestro e l’omicidio furono condannati Raimondi, Alessi e Antonella Conserva, la moglie di Alessi. Non è mai stato del tutto chiarito quale fosse il reale obiettivo dei tre.
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1/1/2024 • 50 minutes, 15 seconds
Grande galleria dell'Appennino, 7-12 ottobre 1985 - Trailer
Ogni due mesi c’è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post.
Il 23 dicembre 1984 alle 19.08 una bomba esplose sul treno Rapido 904, da Napoli a Milano mentre percorreva la Grande Galleria dell’Appennino, tra le stazioni di Vernio, in Toscana, e San Benedetto San Val di Sambro, in Emilia-Romagna. Morirono 15 persone. Un’altra persona morì mesi dopo per le lesioni riportate. I feriti furono più di 250. Quella notte i soccorsi furono molto difficili perché la bomba era stata fatta esplodere mentre il treno si trovava a metà della galleria e l’esplosione aveva fatto saltare le linee elettriche.
Fu chiamata la strage di Natale.
Le indagini vennero affidate alla procura di Firenze perché secondo le testimonianze la bomba era stata piazzata sul treno da un uomo salito alla stazione di Santa Maria Novella. Fu il procuratore Pier Luigi Vigna a occuparsi dell’inchiesta. Le indagini coinvolsero Cosa Nostra, la mafia siciliana, la camorra napoletana, un politico, futuro deputato della Repubblica, i servizi segreti, elementi legati alla destra eversiva.
Fu una strage ideata, secondo quello che scoprì Vigna, dalla mafia con l’aiuto di vari altri gruppi criminali che si unirono per distogliere l’attenzione da indagini che in quel periodo si stavano svolgendo. A Palermo le testimonianze del collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta avevano condotto la procura a chiedere centinaia di arresti. Anche a Napoli la camorra era stata colpita da indagini e arresti. E parte dei vertici dei servizi segreti erano stati coinvolti nella scoperta degli elenchi della loggia massonica Propaganda 2, la P2, guidata da Licio Gelli. L’obiettivo di chi compì quella strage era quello di riportare l’attenzione della magistratura al terrorismo distogliendo l’attenzione dalle organizzazioni criminali e dalle attività dei cosiddetti servizi segreti deviati.
L’esplosivo usato per far esplodere la carrozza nove del Rapido 904, il Semtex H, fu lo stesso utilizzato otto anni dopo per uccidere, a Palermo, in via D’Amelio, Paolo Borsellino e la sua scorta.
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12/13/2023 • 9 minutes, 22 seconds
San Giuliano Terme, 13-14 gennaio 2012 - Prima parte
Ogni due mesi c’è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post.
Nella notte tra 13 e 14 gennaio 2012 Roberta Ragusa scomparve dalla sua casa di Gello, frazione di San Giuliano Terme, in provincia di Pisa. Il marito, Antonio Logli, disse che la mattina del 14 si era svegliato alle 6.30 e si era accorto dell’assenza della moglie. Gli abiti erano in casa, e così portafogli, soldi, carte di credito, documenti. Secondo l’uomo, Roberta Ragusa si era allontanata con indosso un pigiama rosa e le pantofole. Quella notte, nella zona, il termometro aveva sfiorato gli zero gradi.
Per settimane vennero effettuate ricerche in tutta la zona con le unità cinofile, ci furono molte segnalazioni ma mai nessun riscontro. Anche molti presunti veggenti contattarono i carabinieri affermando di sapere che cosa fosse accaduto alla donna.
Due mesi dopo la scomparsa della moglie, Antonio Logli venne indagato. Gli inquirenti erano convinti che non si trattasse di allontanamento volontario ma che la donna fosse stata assassinata. Il marito era sospettato per una serie di comportamenti giudicati anomali e perché aveva ingenuamente mentito in merito alla relazione che aveva con una donna da otto anni. L’ipotesi degli investigatori era che ci fosse stata una lite dopo che Roberta Ragusa aveva scoperto della relazione del marito.
Fu un caso molto seguito dai media: una troupe televisiva si introdusse nella scuola dove studiava la figlia dodicenne di Ragusa e Logli per poterla filmare.
Otto mesi dopo il fatto un testimone disse di aver visto quella notte Antonio Logli vicino a casa sua sul ciglio della strada e poco dopo un uomo e una donna litigare: l’uomo aveva poi spinto a forza la donna nell’auto. Non seppe però dire se si trattasse con certezza di Ragusa e Logli.
Logli, di cui fu chiesto il rinvio a giudizio, fu prosciolto ma, dopo un ricorso in cassazione presentato dalla procura della repubblica di Pisa, venne condannato a vent’anni di reclusione. La sentenza venne confermata nel processo d’appello e poi dalla Corte di cassazione.
Fu un processo indiziario, basato di fatto solo su una testimonianza. E fu un processo anomalo, per omicidio, senza che mai fosse stato trovato il corpo della vittima.
Antonio Logli si è sempre dichiarato innocente, i suoi due figli gli hanno sempre creduto e continuano a sostenerlo.
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12/1/2023 • 40 minutes, 51 seconds
San Giuliano Terme, 13-14 gennaio 2012 - Seconda parte
Ogni due mesi c’è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post.
Nella notte tra 13 e 14 gennaio 2012 Roberta Ragusa scomparve dalla sua casa di Gello, frazione di San Giuliano Terme, in provincia di Pisa. Il marito, Antonio Logli, disse che la mattina del 14 si era svegliato alle 6.30 e si era accorto dell’assenza della moglie. Gli abiti erano in casa, e così portafogli, soldi, carte di credito, documenti. Secondo l’uomo, Roberta Ragusa si era allontanata con indosso un pigiama rosa e le pantofole. Quella notte, nella zona, il termometro aveva sfiorato gli zero gradi.
Per settimane vennero effettuate ricerche in tutta la zona con le unità cinofile, ci furono molte segnalazioni ma mai nessun riscontro. Anche molti presunti veggenti contattarono i carabinieri affermando di sapere che cosa fosse accaduto alla donna.
Due mesi dopo la scomparsa della moglie, Antonio Logli venne indagato. Gli inquirenti erano convinti che non si trattasse di allontanamento volontario ma che la donna fosse stata assassinata. Il marito era sospettato per una serie di comportamenti giudicati anomali e perché aveva ingenuamente mentito in merito alla relazione che aveva con una donna da otto anni. L’ipotesi degli investigatori era che ci fosse stata una lite dopo che Roberta Ragusa aveva scoperto della relazione del marito.
Fu un caso molto seguito dai media: una troupe televisiva si introdusse nella scuola dove studiava la figlia dodicenne di Ragusa e Logli per poterla filmare.
Otto mesi dopo il fatto un testimone disse di aver visto quella notte Antonio Logli vicino a casa sua sul ciglio della strada e poco dopo un uomo e una donna litigare: l’uomo aveva poi spinto a forza la donna nell’auto. Non seppe però dire se si trattasse con certezza di Ragusa e Logli.
Logli, di cui fu chiesto il rinvio a giudizio, fu prosciolto ma, dopo un ricorso in cassazione presentato dalla procura della repubblica di Pisa, venne condannato a vent’anni di reclusione. La sentenza venne confermata nel processo d’appello e poi dalla Corte di cassazione.
Fu un processo indiziario, basato di fatto solo su una testimonianza. E fu un processo anomalo, per omicidio, senza che mai fosse stato trovato il corpo della vittima.
Antonio Logli si è sempre dichiarato innocente, i suoi due figli gli hanno sempre creduto e continuano a sostenerlo.
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12/1/2023 • 45 minutes, 32 seconds
Perugia, 1 novembre 2007 - Prima parte
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Dal 6 novembre iniziano le 10 lezioni sul giornalismo del Post, una serie di incontri online per tutte e tutti, per condividere le cose che abbiamo imparato sui giornali e sull’informazione. C'è anche una lezione di Stefano Nazzi sulla cronaca giudiziaria nel giornalismo italiano, per imparare a scrivere di indagini e processi. Puoi iscriverti fino al 3 novembre, trovi tutte le informazioni qui.
Meredith Susanna Cara Kercher, studentessa inglese in Italia per il progetto Erasmus, fu assassinata a Perugia nella notte tra l'1 e il 2 novembre 2007. Venne uccisa con molte coltellate nella sua stanza, all’interno della casa che condivideva con altre tre ragazze, due italiane e un’americana.
Quattro giorni dopo il questore di Perugia incontrò la stampa e disse: «Il caso è sostanzialmente chiuso». In realtà il caso si chiuse otto anni dopo in maniera molto diversa da come era stato illustrato ai giornalisti in quei giorni.
Le due puntate di Indagini di questo mese si occupano del delitto di Perugia, la cui vicenda è quella che più di ogni altra negli ultimi anni in Italia è stata segnata dalla narrazione dei media. Giornali e televisioni italiani, ma anche inglesi e americani, hanno accompagnato, quasi guidato, il consolidarsi di convinzioni granitiche, prive di dubbi, inscalfibili. La Corte di Cassazione, che nel 2015 chiuse la vicenda processuale, parlò, nelle motivazioni della sentenza, di «un inusitato clamore mediatico» che ha fatto sì che «le indagini subissero un'improvvisa accelerazione che, nella ricerca spasmodica di uno o più colpevoli da assicurare all'opinione pubblica internazionale, non ha certamente giovato alla ricerca della verità sostanziale». La Corte di Cassazione parlò di «clamorose défaillance o ‘amnesie’ investigative e colpevoli omissioni di attività di indagine».
È una storia complessa, i processi furono basati su analisi scientifiche interpretate in maniera opposta da periti e giudici diversi. L'opinione pubblica si divise in tifoserie, spesso conoscendo poco di come procedevano realmente le indagini e quali fossero gli elementi concreti dibattuti nel processo. I media trasformarono la vicenda processuale in una sfida tra un'imputata, Amanda Knox, e un pubblico ministero, Giuliano Mignini; di riflesso, in una sfida tra Stati Uniti e Italia.
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11/1/2023 • 44 minutes, 42 seconds
Perugia, 1 novembre 2007 - Seconda parte
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Dal 6 novembre iniziano le 10 lezioni sul giornalismo del Post, una serie di incontri online per tutte e tutti, per condividere le cose che abbiamo imparato sui giornali e sull’informazione. C'è anche una lezione di Stefano Nazzi sulla cronaca giudiziaria nel giornalismo italiano, per imparare a scrivere di indagini e processi. Puoi iscriverti fino al 3 novembre, trovi tutte le informazioni qui.
Meredith Susanna Cara Kercher, studentessa inglese in Italia per il progetto Erasmus, fu assassinata a Perugia nella notte tra l'1 e il 2 novembre 2007. Venne uccisa con molte coltellate nella sua stanza, all’interno della casa che condivideva con altre tre ragazze, due italiane e un’americana.
Quattro giorni dopo il questore di Perugia incontrò la stampa e disse: «Il caso è sostanzialmente chiuso». In realtà il caso si chiuse otto anni dopo in maniera molto diversa da come era stato illustrato ai giornalisti in quei giorni.
Le due puntate di Indagini di questo mese si occupano del delitto di Perugia, la cui vicenda è quella che più di ogni altra negli ultimi anni in Italia è stata segnata dalla narrazione dei media. Giornali e televisioni italiani, ma anche inglesi e americani, hanno accompagnato, quasi guidato, il consolidarsi di convinzioni granitiche, prive di dubbi, inscalfibili. La Corte di Cassazione, che nel 2015 chiuse la vicenda processuale, parlò, nelle motivazioni della sentenza, di «un inusitato clamore mediatico» che ha fatto sì che «le indagini subissero un'improvvisa accelerazione che, nella ricerca spasmodica di uno o più colpevoli da assicurare all'opinione pubblica internazionale, non ha certamente giovato alla ricerca della verità sostanziale». La Corte di Cassazione parlò di «clamorose défaillance o ‘amnesie’ investigative e colpevoli omissioni di attività di indagine».
È una storia complessa, i processi furono basati su analisi scientifiche interpretate in maniera opposta da periti e giudici diversi. L'opinione pubblica si divise in tifoserie, spesso conoscendo poco di come procedevano realmente le indagini e quali fossero gli elementi concreti dibattuti nel processo. I media trasformarono la vicenda processuale in una sfida tra un'imputata, Amanda Knox, e un pubblico ministero, Giuliano Mignini; di riflesso, in una sfida tra Stati Uniti e Italia.
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11/1/2023 • 1 hour, 7 minutes, 51 seconds
Sigonella, 7-12 ottobre 1985 - Trailer
Quella della crisi di Sigonella è una puntata speciale, disponibile solo sull'app del Post per le persone abbonate: un modo per ringraziarle per la loro partecipazione al progetto del Post e per permettere che il Post possa continuare a fare il suo giornalismo in modo gratuito per tutte e tutti. Se vuoi ascoltarla puoi abbonarti qui.Il 7 ottobre 1985, verso le 12:30, una nave da crociera italiana, la Achille Lauro, venne dirottata da quattro terroristi palestinesi armati mentre navigava al largo delle coste egiziane. A bordo in quel momento c’erano 344 membri dell’equipaggio e 210 passeggeri mentre 544 persone erano sbarcate al Cairo e sarebbero tornate a bordo in serata, a Port Said. I passeggeri erano di molte nazionalità.I terroristi dichiararono di essere membri del Fronte di Liberazione della Palestina, movimento palestinese dissidente in contrasto con la leadership di Yasser Arafat. Iniziarono così giorni di trattative, minacce da parte dei terroristi, pressioni statunitensi per un intervento armato.Durante il sequestro venne assassinato un passeggero americano di 69 anni, disabile a causa di un ictus di qualche anno prima. Si chiamava Leon Klinghoffer.La notizia che a bordo era stato commesso un omicidio venne data da un radioamatore libanese che intercettò una comunicazione tra i terroristi sulla nave e i mediatori palestinesi incaricati da Yasser Arafat, presidente dell’Olp (l’Organizzazione per la liberazione della Palestina), di trovare una soluzione diplomatica. Il comandante della nave, interpellato dalle autorità italiane, negò che a bordo fosse accaduto qualcosa di grave.I quattro terroristi liberarono la nave a Port Said, in Egitto, dopo che l’Italia accettò di fornire loro un salvacondotto.Iniziò a quel punto un’altra fase della vicenda. L’aereo egiziano con a bordo i quattro terroristi, partito in direzione di Tunisi, venne dirottato da caccia americani e fatto atterrare nella base dell’aeronautica militare italiana di Sigonella, in Sicilia. Gli Stati Uniti volevano prendere in custodia i dirottatori ma anche uno dei mediatori, Abu Abbas, considerato da loro l'ideatore del dirottamento e il capo del gruppo.Militari americani della Delta Force e italiani si fronteggiarono armati, la tensione tra Stati Uniti e Italia fu altissima. Per la prima volta, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, Usa e Italia si trovarono su fronti opposti. A essere dirottata era stata una nave italiana e i reati erano stati commessi su suolo italiano: gli americani non avevano quindi nessuna giurisdizione.Alla fine i militari americani della Delta Force lasciarono la pista dell’aeroporto, i quattro terroristi vennero arrestati dalla polizia giudiziaria italiana mentre un aereo con a bordo Abu Abbas, ripartito da Sigonella, fu oggetto di un altro tentativo di intercettamento da parte di velivoli militari americani.Abu Abbas trovò infine rifugio in Jugoslavia.La crisi di Sigonella ebbe conseguenze politiche e diplomatiche importanti. Il governo italiano presieduto da Bettino Craxi fu accusato di doppiezza dalla stampa americana e da molti membri dell’amministrazione di Washington che imputarono agli italiani la responsabilità di aver fatto fuggire un terrorista, ispiratore dell’omicidio di un cittadino americano. In Italia le reazioni furono invece opposte. Bettino Craxi visse un periodo di grande popolarità, indicato dalla maggioranza della stampa e dell’opinione pubblica come colui che non si era piegato alla prepotenza degli Stati Uniti.Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi
10/10/2023 • 4 minutes, 54 seconds
Bologna, 12 giugno 1983 - Prima parte
Dal 10 ottobre, ogni due mesi, ci sarà Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post.***Il 15 giugno 1983, in via del Riccio 7, a Bologna, venne trovato il corpo di una donna. Era stata uccisa nel suo appartamento con molti colpi inferti da un piccolo coltello.La donna, stabilì l’autopsia, era stata uccisa tre giorni prima, quindi il 12 giugno: si chiamava Francesca Alinovi, aveva 35 anni ed era insegnante al Dams, Discipline delle arti, della musica e dello spettacolo dell’università di Bologna. Era una delle giovani critiche d’arte italiane più stimate e all’avanguardia, scopritrice di nuovi talenti. Era stata lei a portare per la prima volta in Italia l’arte dei graffitari newyorkesi, a far conoscere in Italia Keith Haring, a promuovere i disegni di Paz, Andrea Pazienza. Le indagini si concentrarono nell’ambiente del Dams e in particolare su un ragazzo, Francesco Ciancabilla, di dieci anni più giovane di Alinovi. Gli amici sostennero che Ciancabilla e Alinovi stessero insieme anche se lui nel corso delle indagini lo negò. Vennero analizzati i diari scritti dalla vittima in cui lei parlava del suo rapporto con il ragazzo, del loro legame ma anche del fatto che lui si rifiutasse di avere rapporti sessuali.Complesse perizie, compresa una su un orologio che era al polso della vittima, indicarono l’ora della morte intorno alle 18-19 del 12 giugno 1983 quando Ciancabilla, per sua stessa ammissione, a casa della critica d’arte. Ciancabilla però si è sempre dichiarato innocente.Il processo a Francesco Ciancabilla fu un processo indiziario, senza prove ma con una serie di elementi che, secondo il pubblico ministero, portavano a una conclusione logica: che il ragazzo fosse colpevole.Detenuto in carcerazione preventiva da quasi due anni, Ciancabilla fu assolto in primo grado e poi condannato nel processo d’appello a 16 anni di carcere. Nel frattempo, però, aveva lasciato l’Italia. Restò latitante dieci anni prima di essere arrestato in Spagna. Per quattro volte una richiesat di revisione del processo venne respinta.Ha scontato la sua pena e oggi è un uomo senza nessuna pendenza con la giustizia.Ha continuato a dichiararsi innocente. Secondo molte delle persone che seguirono il caso e il processo, quel procedimento non rispettò il principio del ragionevole dubbio.Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi
10/1/2023 • 43 minutes, 58 seconds
Bologna, 12 giugno 1983 - Seconda parte
Dal 10 ottobre, ogni due mesi, ci sarà Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post.***Il 15 giugno 1983, in via del Riccio 7, a Bologna, venne trovato il corpo di una donna. Era stata uccisa nel suo appartamento con molti colpi inferti da un piccolo coltello.La donna, stabilì l’autopsia, era stata uccisa tre giorni prima, quindi il 12 giugno: si chiamava Francesca Alinovi, aveva 35 anni ed era insegnante al Dams, Discipline delle arti, della musica e dello spettacolo dell’università di Bologna. Era una delle giovani critiche d’arte italiane più stimate e all’avanguardia, scopritrice di nuovi talenti. Era stata lei a portare per la prima volta in Italia l’arte dei graffitari newyorkesi, a far conoscere in Italia Keith Haring, a promuovere i disegni di Paz, Andrea Pazienza. Le indagini si concentrarono nell’ambiente del Dams e in particolare su un ragazzo, Francesco Ciancabilla, di dieci anni più giovane di Alinovi. Gli amici sostennero che Ciancabilla e Alinovi stessero insieme anche se lui nel corso delle indagini lo negò. Vennero analizzati i diari scritti dalla vittima in cui lei parlava del suo rapporto con il ragazzo, del loro legame ma anche del fatto che lui si rifiutasse di avere rapporti sessuali.Complesse perizie, compresa una su un orologio che era al polso della vittima, indicarono l’ora della morte intorno alle 18-19 del 12 giugno 1983 quando Ciancabilla, per sua stessa ammissione, a casa della critica d’arte. Ciancabilla però si è sempre dichiarato innocente.Il processo a Francesco Ciancabilla fu un processo indiziario, senza prove ma con una serie di elementi che, secondo il pubblico ministero, portavano a una conclusione logica: che il ragazzo fosse colpevole.Detenuto in carcerazione preventiva da quasi due anni, Ciancabilla fu assolto in primo grado e poi condannato nel processo d’appello a 16 anni di carcere. Nel frattempo, però, aveva lasciato l’Italia. Restò latitante dieci anni prima di essere arrestato in Spagna. Per quattro volte una richiesat di revisione del processo venne respinta.Ha scontato la sua pena e oggi è un uomo senza nessuna pendenza con la giustizia.Ha continuato a dichiararsi innocente. Secondo molte delle persone che seguirono il caso e il processo, quel procedimento non rispettò il principio del ragionevole dubbio.Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi
10/1/2023 • 45 minutes, 13 seconds
Mare Mediterraneo, giugno-luglio 1988 - Prima parte
Il 28 giugno 1988 il corpo di una donna rimase impigliato, al largo della costa marchigiana, nelle reti di un peschereccio. Si chiamava Annarita Curina, era una skipper: era stata uccisa e gettata in mare legata a un’ancora del peso di 17 chili. Era partita il 10 giugno da Pesaro a bordo della sua barca, un catamarano, l’Arx. Con lei a bordo c’erano due persone, Filippo De Cristofaro, 34 anni, e Adriana Diana Beyer, 17. Il progetto era quello di una traversata fino alle Baleari dove poi Annarita Curina si sarebbe fermata. Per non fare la traversata da sola aveva accettato a bordo le altre due persone che avrebbero dovuto aiutarla nei lavori sulla barca.Dopo il ritrovamento del corpo iniziarono le ricerche nel mare Adriatico che poi si allargarono a tutto il Mediterraneo. L’Arx, che nel frattempo aveva cambiato nome in Fly2, era stato avvistato largo della Puglia e poi in Sicilia. Venne poi ritrovato ormeggiato nel porto tunisino di Ghar el Melh. De Cristofaro e Beyer però non c’erano. Assieme a una terza persona, che si era unita a loro dopo l’omicidio di Annarita Curina e che viaggiava assieme a un cane lupo, erano fuggiti a cavallo verso l’Algeria. Vennero arrestati il 19 luglio ed estradati in Italia. Inizialmente diedero la stessa versione dei fatti, poi ognuno raccontò una storia diversa. De Cristofaro e Beyer vennero processati per omicidio: l’uomo ricevette la pena più pesante, l’ergastolo.Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi
9/1/2023 • 43 minutes, 50 seconds
Mare Mediterraneo, giugno-luglio 1988 - Seconda parte
Il 28 giugno 1988 il corpo di una donna rimase impigliato, al largo della costa marchigiana, nelle reti di un peschereccio. Si chiamava Annarita Curina, era una skipper: era stata uccisa e gettata in mare legata a un’ancora del peso di 17 chili. Era partita il 10 giugno da Pesaro a bordo della sua barca, un catamarano, l’Arx. Con lei a bordo c’erano due persone, Filippo De Cristofaro, 34 anni, e Adriana Diana Beyer, 17. Il progetto era quello di una traversata fino alle Baleari dove poi Annarita Curina si sarebbe fermata. Per non fare la traversata da sola aveva accettato a bordo le altre due persone che avrebbero dovuto aiutarla nei lavori sulla barca.Dopo il ritrovamento del corpo iniziarono le ricerche nel mare Adriatico che poi si allargarono a tutto il Mediterraneo. L’Arx, che nel frattempo aveva cambiato nome in Fly2, era stato avvistato largo della Puglia e poi in Sicilia. Venne poi ritrovato ormeggiato nel porto tunisino di Ghar el Melh. De Cristofaro e Beyer però non c’erano. Assieme a una terza persona, che si era unita a loro dopo l’omicidio di Annarita Curina e che viaggiava assieme a un cane lupo, erano fuggiti a cavallo verso l’Algeria. Vennero arrestati il 19 luglio ed estradati in Italia. Inizialmente diedero la stessa versione dei fatti, poi ognuno raccontò una storia diversa. De Cristofaro e Beyer vennero processati per omicidio: l’uomo ricevette la pena più pesante, l’ergastolo.Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi
9/1/2023 • 50 minutes, 14 seconds
Este, Broni, Bascapè, 1995-1999 - Prima Parte
Il 2 agosto 1998, domenica, alle 15.50 una donna telefona alla stazione dei carabinieri di Bascapè, in provincia di Pavia. Dice: «Venite, ho ucciso mio marito». Il corpo dell’uomo è sul balcone, avvolto in una coperta e nascosto da un tappeto. La donna ha ucciso il marito la sera prima, al termine di una lite. Entrambi, come facevano con continuità, avevano bevuto molto. In casa c’erano le due figlie della coppia che non si erano accorte di nulla.Poi quella donna uccise ancora. Si scoprì che aveva ucciso anche in precedenza: sempre uomini violenti, che l’avevano maltrattata, l’avevano violentata o avevano tentato di farlo.Quella donna si chiamava Milena Quaglini, i giornali la chiamarono la vendicatrice del pavese o la casalinga serial killer.La sua è una storia di violenza, subita e inflitta, di tre omicidi che la Giustizia italiana considerò in maniera diversa nei tre gradi di giudizio e di come anche le perizie psichiatriche diedero risultati diversi l’una dall’altra. Tutte le perizie però concordarono su un punto: Milena Quaglini non dimostrò mai nessun pentimento: considerò quello che aveva fatto come una conseguenza logica di ciò che aveva subito fin dall’infanzia.Sulla sua storia, sulla sua reale lucidità quando commise i delitti, sull’effettiva capacità di intendere e di volere e su quanto la dipendenza da alcol abbia influito sulle sue azioni restano ancora molti dubbi, tante domande che non potranno mai avere risposta. E resta una domanda senza risposta anche se Milena Quaglini, nella sua vittima, abbia ucciso anche altri uomini, oltre ai tre accertati dalle indagini.Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi
8/1/2023 • 45 minutes, 30 seconds
Este, Broni, Bascapè, 1995-1999 - Seconda Parte
Il 2 agosto 1998, domenica, alle 15.50 una donna telefona alla stazione dei carabinieri di Bascapè, in provincia di Pavia. Dice: «Venite, ho ucciso mio marito». Il corpo dell’uomo è sul balcone, avvolto in una coperta e nascosto da un tappeto. La donna ha ucciso il marito la sera prima, al termine di una lite. Entrambi, come facevano con continuità, avevano bevuto molto. In casa c’erano le due figlie della coppia che non si erano accorte di nulla.Poi quella donna uccise ancora. Si scoprì che aveva ucciso anche in precedenza: sempre uomini violenti, che l’avevano maltrattata, l’avevano violentata o avevano tentato di farlo.Quella donna si chiamava Milena Quaglini, i giornali la chiamarono la vendicatrice del pavese o la casalinga serial killer.La sua è una storia di violenza, subita e inflitta, di tre omicidi che la Giustizia italiana considerò in maniera diversa nei tre gradi di giudizio e di come anche le perizie psichiatriche diedero risultati diversi l’una dall’altra. Tutte le perizie però concordarono su un punto: Milena Quaglini non dimostrò mai nessun pentimento: considerò quello che aveva fatto come una conseguenza logica di ciò che aveva subito fin dall’infanzia.Sulla sua storia, sulla sua reale lucidità quando commise i delitti, sull’effettiva capacità di intendere e di volere e su quanto la dipendenza da alcol abbia influito sulle sue azioni restano ancora molti dubbi, tante domande che non potranno mai avere risposta. E resta una domanda senza risposta anche se Milena Quaglini, nella sua vittima, abbia ucciso anche altri uomini, oltre ai tre accertati dalle indagini.Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi
8/1/2023 • 50 minutes, 29 seconds
Seveso, 10 luglio 1976 - Trailer
Quella del disastro del Seveso è una puntata speciale, disponibile solo sull'app del Post per le persone abbonate: un modo per ringraziarle per la loro partecipazione al progetto del Post e per permettere che il Post possa continuare a fare il suo giornalismo in modo gratuito per tutte e tutti. Se vuoi ascoltarla puoi abbonarti qui.Tra il comune di Meda e quello di Seveso, nella provincia di Monza e Brianza, oggi c’è un grande parco, un’area protetta: si chiama Bosco delle Querce. Fu realizzato all’inizio degli anni Ottanta: prima, in quell’area, c’erano case e laboratori artigiani, strade, negozi, cortili. Poi tutto fu raso al suolo. Accadde dopo che, il 10 luglio 1976, una nube contenente una sostanza tossica fuoriuscì da uno dei reattori di una fabbrica di Meda, l’Icmesa: Industrie Chimiche Meda Società Azionaria. Quella nube conteneva TCDD, diossina, una sostanza di cui si sapeva allora molto poco e soprattutto di cui non si conoscevano gli effetti che avrebbe avuto su donne e uomini che erano stati esposti.Il vento spinse la nube verso Seveso, la diossina si posò proprio nell’area in cui oggi c’è il Bosco delle Querce.La storia di come a un’intera comunità per giorni venne nascosto che cosa era accaduto e di come decine di famiglie vennero poi, forse tardivamente, evacuate è raccontata nelle due puntate speciali di Indagini – Altre Indagini – disponibili dal 10 luglio per le abbonate e gli abbonati del Post. Altre Indagini racconta delle conseguenze immediate che ebbe quella nube tossica, di come i media ne parlarono e di come l’affrontarono le popolazioni di Meda e Seveso. E degli affetti che ebbe poi nel lungo periodo.Racconta anche di come quell’evento cambiò l’Italia e l’Europa che furono costrette a stabilire nuove, rigide regole per le fabbriche che lavoravano sostanze pericolose. E racconta di come da ciò che accadde nacquero importanti discussioni e molte polemiche sull’interruzione di gravidanza, allora non permessa in Italia. Come andava affrontata la possibilità che nascessero bambini malformati dalle future madri che erano state esposte alla diossina?Altre Indagini racconta anche di come venne poi smaltito tutto ciò che era stato contaminato, di come 41 fusti di materiale tossico partirono dall’Italia e poi sparirono, per riapparire tre anni dopo. E di come si decise alla fine di sotterrare tutto, a 50 metri di profondità in due enormi vasche, una da 200 mila e l'altra 80 mila metri cubi. Sono le due vasche che si trovano sotto il bosco delle querce. Sopra c’è il verde, gli alberi, un parco meraviglioso. Sotto ci sono i resti di case, mobili, vestiti, oggetti, ruspe, divise, mezzi di trasporto, ciò che rimane di migliaia di animali morti.Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi
7/10/2023 • 3 minutes, 50 seconds
Colle San Marco (Ascoli Piceno), 19 aprile 2011 - Prima Parte
Il 10 luglio uscirà una puntata speciale di Indagini, disponibile solo sull'app del Post per le persone abbonate. Per abbonarti vai su abbonati.ilpost.it.Il 19 aprile 2011 una donna scomparve a Colle San Marco, a venti chilometri da Ascoli Piceno. Si chiamava Melania Rea, era andata a fare una gita con il marito, Salvatore Parolisi, e la figlia Vittoria, di 18 mesi.L’uomo disse che la moglie si era allontanata per andare in bagno e poi non era più tornata.Due giorni dopo, il corpo della donna fu ritrovato a Ripe di Civitella, a venti chilometri dal luogo dove era scomparsa. Era stata assassinata con 35 coltellate. Sul suo corpo era stata incisa una svastica.Vennero scoperte molte bugie e omertà e ci furono fughe di notizie che rischiarono di compromettere l’inchiesta.Le indagini dopo alcune settimane si concentrarono sul marito che, secondo gli inquirenti, non aveva saputo gestire la propria vita, diviso tra la moglie e il rapporto con una ragazza, sua ex allieva, conosciuta in caserma. Gli inquirenti parlarono di una «strettoia emotiva». Parolisi fu arrestato a luglio, tre mesi dopo il delitto. Per gli inquirenti aveva ucciso la moglie e poi agito sulla scena del crimine per depistare le indagini.Indagini è un podcast del Post scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
7/1/2023 • 44 minutes, 25 seconds
Colle San Marco (Ascoli Piceno), 19 aprile 2011 - Seconda Parte
Il 10 luglio uscirà una puntata speciale di Indagini, disponibile solo sull'app del Post per le persone abbonate. Per abbonarti vai su abbonati.ilpost.it.Il 19 aprile 2011 una donna scomparve a Colle San Marco, a venti chilometri da Ascoli Piceno. Si chiamava Melania Rea, era andata a fare una gita con il marito, Salvatore Parolisi, e la figlia Vittoria, di 18 mesi.L’uomo disse che la moglie si era allontanata per andare in bagno e poi non era più tornata.Due giorni dopo, il corpo della donna fu ritrovato a Ripe di Civitella, a venti chilometri dal luogo dove era scomparsa. Era stata assassinata con 35 coltellate. Sul suo corpo era stata incisa una svastica.Vennero scoperte molte bugie e omertà e ci furono fughe di notizie che rischiarono di compromettere l’inchiesta.Le indagini dopo alcune settimane si concentrarono sul marito che, secondo gli inquirenti, non aveva saputo gestire la propria vita, diviso tra la moglie e il rapporto con una ragazza, sua ex allieva, conosciuta in caserma. Gli inquirenti parlarono di una «strettoia emotiva». Parolisi fu arrestato a luglio, tre mesi dopo il delitto. Per gli inquirenti aveva ucciso la moglie e poi agito sulla scena del crimine per depistare le indagini.Indagini è un podcast del Post scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
7/1/2023 • 47 minutes, 38 seconds
Roma, 7 agosto 1990 - Prima parte
Il 7 agosto 1990 in via Poma, a Roma, nel quartiere Prati, una ragazza di vent’anni venne assassinata con 29 colpi di quello che il medico legale definì «un mezzo da punta e taglio con peculiarità bitagliente ma non dotata di particolare azione recidente e penetrata segnatamente in virtù della sua estremità aguzza». Il medico disse che poteva trattarsi di un tagliacarte ma sull’arma non c’è mai stata alcuna certezza.La ragazza si chiamava Simonetta Cesaroni. Quel giorno era in un ufficio dell’AIAG, Associazione italiana alberghi della gioventù. Stava lavorando al computer: doveva inserire alcuni dati contabili.Per il suo omicidio venne indagato e arrestato il portiere dello stabile in cui si trovava l’ufficio, Pietrino Vanacore. Fu rilasciato qualche giorno dopo: contro di lui non c’era nessuna prova concreta. Il suo nome però tornò più volte, negli anni, durante le indagini. Due anni dopo a essere indagato fu il nipote di un inquilino della palazzina in cui era avvenuto l’omicidio. Anche lui fu scagionato. Vent’anni più tardi a essere processato fu il ragazzo che, all’epoca era fidanzato con Simonetta Cesaroni: Raniero Busco. Venne condannato in primo grado e poi assolto in appello e in cassazione.Il colpevole dell’omicidio di Simonetta Cesaroni non è mai stato individuato e il caso di via Poma è il cold case più famoso della storia italiana.Nello shop del Post è disponibile la borsa di Indagini.Indagini è un podcast del Post scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
6/1/2023 • 53 minutes, 13 seconds
Roma, 7 agosto 1990 - Seconda parte
Il 7 agosto 1990 in via Poma, a Roma, nel quartiere Prati, una ragazza di vent’anni venne assassinata con 29 colpi di quello che il medico legale definì «un mezzo da punta e taglio con peculiarità bitagliente ma non dotata di particolare azione recidente e penetrata segnatamente in virtù della sua estremità aguzza». Il medico disse che poteva trattarsi di un tagliacarte ma sull’arma non c’è mai stata alcuna certezza.La ragazza si chiamava Simonetta Cesaroni. Quel giorno era in un ufficio dell’AIAG, Associazione italiana alberghi della gioventù. Stava lavorando al computer: doveva inserire alcuni dati contabili.Per il suo omicidio venne indagato e arrestato il portiere dello stabile in cui si trovava l’ufficio, Pietrino Vanacore. Fu rilasciato qualche giorno dopo: contro di lui non c’era nessuna prova concreta. Il suo nome però tornò più volte, negli anni, durante le indagini. Due anni dopo a essere indagato fu il nipote di un inquilino della palazzina in cui era avvenuto l’omicidio. Anche lui fu scagionato. Vent’anni più tardi a essere processato fu il ragazzo che, all’epoca era fidanzato con Simonetta Cesaroni: Raniero Busco. Venne condannato in primo grado e poi assolto in appello e in cassazione.Il colpevole dell’omicidio di Simonetta Cesaroni non è mai stato individuato e il caso di via Poma è il cold case più famoso della storia italiana.Nello shop del Post è disponibile la borsa di Indagini.Indagini è un podcast del Post scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
6/1/2023 • 58 minutes, 43 seconds
Veneto, Lombardia, Germania, 1977-1984 - Prima Parte
Il pomeriggio del 4 marzo 1984 due ragazzi vennero fermati mentre spargevano benzina all’interno di una discoteca, a Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova.In quel momento, all’interno, era in corso una festa di carnevale: c’erano circa 500 persone. Ai carabinieri che li portarono in caserma i due ragazzi diedero i loro nomi: Wolfgang Abel e Marco Furlan: avevano 24 anni, entrambi erano di Verona.Vennero sottoposti a fermo giudiziario e poi arrestati.Da quel momento la loro storia venne percorsa a ritroso, passando per Monaco di Baviera, Milano, Vicenza, Venezia, Padova. Era iniziato tutto a Verona, il 25 agosto di 1977.I due ragazzi avevano ucciso, utilizzando coltelli, martelli, benzina. Si erano dati un nome: Ludwig. Vennero condannati per aver assassinato dieci persone ma rimase il dubbio che fossero gli autori anche di molti altri delitti. Le loro vittime furono tossicodipendenti, prostitute, religiosi, senzatetto. Odiavano i locali notturni, volevano colpire le discoteche.Questa è la storia di Marco Furlan e Wolfgang Abel, la storia di Ludwig e della domanda che non ha mai avuto una risposta: erano davvero solo loro due?Indagini è un podcast del Post scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
5/6/2023 • 48 minutes, 23 seconds
Veneto, Lombardia, Germania, 1977-1984 - Seconda Parte
Il pomeriggio del 4 marzo 1984 due ragazzi vennero fermati mentre spargevano benzina all’interno di una discoteca, a Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova.In quel momento, all’interno, era in corso una festa di carnevale: c’erano circa 500 persone. Ai carabinieri che li portarono in caserma i due ragazzi diedero i loro nomi: Wolfgang Abel e Marco Furlan: avevano 24 anni, entrambi erano di Verona.Vennero sottoposti a fermo giudiziario e poi arrestati.Da quel momento la loro storia venne percorsa a ritroso, passando per Monaco di Baviera, Milano, Vicenza, Venezia, Padova. Era iniziato tutto a Verona, il 25 agosto di 1977.I due ragazzi avevano ucciso, utilizzando coltelli, martelli, benzina. Si erano dati un nome: Ludwig. Vennero condannati per aver assassinato dieci persone ma rimase il dubbio che fossero gli autori anche di molti altri delitti. Le loro vittime furono tossicodipendenti, prostitute, religiosi, senzatetto. Odiavano i locali notturni, volevano colpire le discoteche.Questa è la storia di Marco Furlan e Wolfgang Abel, la storia di Ludwig e della domanda che non ha mai avuto una risposta: erano davvero solo loro due?Indagini è un podcast del Post scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
5/6/2023 • 52 minutes, 23 seconds
Emilia-Romagna e Marche, 1987-1994 - Prima Parte
Iniziò tutto lungo l’autostrada A14, la notte del 19 giugno 1987. Una Fiat Regata si fermò al casello di Pesaro. Scesero due rapinatori e puntando i fucili a pompa contro l’addetto al casello si fecero consegnare 1 milione e trecentomila lire, circa 1.500 euro di oggi. A quella prima rapina ne seguirono molte altre, lungo l’autostrada A14. Poi i banditi passarono agli uffici postali, ai supermercati Coop e quindi alla banche. Rapinarono in Emilia-Romagna e nelle Marche. Qualche mese dopo iniziarono a uccidere: in sette anni quella banda uccise più di 20 persone, ne ferì più di 100, compì almeno 103 azioni criminali.Uccisero per denaro ma anche senza nessun motivo. Uccisero persone inermi che avevano osato mettersi sulla loro strada, e uccisero per razzismo.Quel gruppo di criminali è diventato famoso come la banda della Uno Bianca.Le indagini furono ostacolate da depistaggi, sviste, noncuranze, incomprensioni. Ma anche dal fatto che nessuno poteva immaginare chi fossero davvero quei criminali. Li arrestarono nel novembre del 1994. Cinque di loro erano poliziotti in servizio in Emilia-Romagna.In molti pensano ancora oggi che non tutto sia stato scoperto. Che i banditi della Uno Bianca abbiano goduto di coperture e che i servizi segreti dell’epoca abbiano avuto un ruolo nella vicenda.Dopo una sanguinosa rapina in un’armeria di Bologna, in questura venne appeso l’identikit di uno degli assassini. Quell’identikit era identico al volto di Roberto Savi, uno dei poliziotti che tre anni dopo venne arrestato. Nessuno notò quella somiglianza. O forse nessuno volle notarla.Indagini è un podcast del Post scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
4/1/2023 • 49 minutes, 30 seconds
Emilia-Romagna e Marche, 1987-1994 - Seconda Parte
Iniziò tutto lungo l’autostrada A14, la notte del 19 giugno 1987. Una Fiat Regata si fermò al casello di Pesaro. Scesero due rapinatori e puntando i fucili a pompa contro l’addetto al casello si fecero consegnare 1 milione e trecentomila lire, circa 1.500 euro di oggi. A quella prima rapina ne seguirono molte altre, lungo l’autostrada A14. Poi i banditi passarono agli uffici postali, ai supermercati Coop e quindi alla banche. Rapinarono in Emilia-Romagna e nelle Marche. Qualche mese dopo iniziarono a uccidere: in sette anni quella banda uccise più di 20 persone, ne ferì più di 100, compì almeno 103 azioni criminali.Uccisero per denaro ma anche senza nessun motivo. Uccisero persone inermi che avevano osato mettersi sulla loro strada, e uccisero per razzismo.Quel gruppo di criminali è diventato famoso come la banda della Uno Bianca.Le indagini furono ostacolate da depistaggi, sviste, noncuranze, incomprensioni. Ma anche dal fatto che nessuno poteva immaginare chi fossero davvero quei criminali. Li arrestarono nel novembre del 1994. Cinque di loro erano poliziotti in servizio in Emilia-Romagna.In molti pensano ancora oggi che non tutto sia stato scoperto. Che i banditi della Uno Bianca abbiano goduto di coperture e che i servizi segreti dell’epoca abbiano avuto un ruolo nella vicenda.Dopo una sanguinosa rapina in un’armeria di Bologna, in questura venne appeso l’identikit di uno degli assassini. Quell’identikit era identico al volto di Roberto Savi, uno dei poliziotti che tre anni dopo venne arrestato. Nessuno notò quella somiglianza. O forse nessuno volle notarla.Indagini è un podcast del Post scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
4/1/2023 • 53 minutes, 6 seconds
Novi Ligure, 21 febbraio 2001 - Prima parte
Il 21 febbraio 2001 una ragazza a piedi nudi, sporca di sangue, fermò un’auto che passava vicino a casa sua, nel quartiere Lodolino, a Novi Ligure. Disse che due persone, un giovane e uno più anziano, erano entrate in casa: avevano ucciso sua madre e suo fratello di 12 anni. Disse che erano stranieri, albanesi. Fece gli identikit, riconobbe anche una fotografia che i carabinieri le mostrarono: era quella di un ragazzo di origine albanese. I militari lo andarono a prendere ma lui aveva un alibi, venne rilasciato.Il procuratore capo di Alessandria, che entrò nella casa, dove erano avvenuti i due omicidi, si sentì male. Disse che non aveva mai visto nulla di simile. Intervistato dal telegiornale di Raiuno disse: «C’è gente feroce».Ci furono proteste e fiaccolate contro i migranti, molti politici soffiarono sul fuoco. I giornali nei titoli parlarono di una banda di slavi. Poi, dopo due giorni, si scoprì che la verità era molto più banale e la ferocia molto più vicina.La ragazza che cercava aiuto sporca di sangue venne arrestata con l’accusa di aver ucciso la madre, Susy Cassini, e il fratello Gianluca. Con lei venne arrestato il suo fidanzato, Mauro Favaro, che tutti chiamavano Omar.La storia di ciò che accadde, del processo che seguì a quelli avvenimenti, di come la giustizia minorile si trovò ad affrontare un delitto feroce, “da adulti” commesso però da due poco più che bambini, è una di quelle che più hanno segnato la storia d’Italia degli ultimi vent’anni.Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
3/1/2023 • 39 minutes, 53 seconds
Novi Ligure, 21 febbraio 2001 - Seconda parte
Il 21 febbraio 2001 una ragazza a piedi nudi, sporca di sangue, fermò un’auto che passava vicino a casa sua, nel quartiere Lodolino, a Novi Ligure. Disse che due persone, un giovane e uno più anziano, erano entrate in casa: avevano ucciso sua madre e suo fratello di 12 anni. Disse che erano stranieri, albanesi. Fece gli identikit, riconobbe anche una fotografia che i carabinieri le mostrarono: era quella di un ragazzo di origine albanese. I militari lo andarono a prendere ma lui aveva un alibi, venne rilasciato.Il procuratore capo di Alessandria, che entrò nella casa, dove erano avvenuti i due omicidi, si sentì male. Disse che non aveva mai visto nulla di simile. Intervistato dal telegiornale di Raiuno disse: «C’è gente feroce».Ci furono proteste e fiaccolate contro i migranti, molti politici soffiarono sul fuoco. I giornali nei titoli parlarono di una banda di slavi. Poi, dopo due giorni, si scoprì che la verità era molto più banale e la ferocia molto più vicina.La ragazza che cercava aiuto sporca di sangue venne arrestata con l’accusa di aver ucciso la madre, Susy Cassini, e il fratello Gianluca. Con lei venne arrestato il suo fidanzato, Mauro Favaro, che tutti chiamavano Omar.La storia di ciò che accadde, del processo che seguì a quelli avvenimenti, di come la giustizia minorile si trovò ad affrontare un delitto feroce, “da adulti” commesso però da due poco più che bambini, è una di quelle che più hanno segnato la storia d’Italia degli ultimi vent’anni.Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
3/1/2023 • 48 minutes, 19 seconds
Roma, 17 giugno 1983 - Prima Parte
Il 17 giugno 1983, alle 4.30 del mattino, i carabinieri bussarono alla porta di una stanza dell’Hotel Plaza, a Roma, in via del Corso. Iniziò così una delle vicende di cronaca più incredibili della storia d’Italia. Enzo Tortora, giornalista televisivo famosissimo, conduttore di una trasmissione che andava in onda Rai2 il venerdì sera ed era seguita da oltre 20 milioni di spettatori, venne arrestato con l’accusa di far parte della camorra e di essere uno spacciatore di droga, amico e complice dei più celebri capi della criminalità organizzata degli anni Ottanta.Contro di lui c’erano i racconti di due pentiti, Pasquale Barra detto o’animale, e Giovanni Pandico, chiamato o’ pazzo.La storia del caso Tortora è la storia di indagini che non vennero fatte, di pentiti che si giurarono vendetta e morte l’un l’altro, di elastici di slip che si ruppero e costringendo una donna ad appartarsi e vedere, disse poi lei, cosa non avrebbe dovuto vedere. Ma anche di centrini da tavola realizzati all'uncinetto da un carcerato, di serate al derby club di Milano, di elezioni europee, di soldi del terremoto del 1980, di giornali che inventarono di tutto e di quattro anni di una vicenda giudiziaria che oggi, a raccontarla, pare davvero impossibile che sia potuta realmente accadere.Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
2/1/2023 • 50 minutes, 38 seconds
Roma, 17 giugno 1983 - Seconda parte
Il 17 giugno 1983, alle 4.30 del mattino, i carabinieri bussarono alla porta di una stanza dell’Hotel Plaza, a Roma, in via del Corso. Iniziò così una delle vicende di cronaca più incredibili della storia d’Italia. Enzo Tortora, giornalista televisivo famosissimo, conduttore di una trasmissione che andava in onda Rai2 il venerdì sera ed era seguita da oltre 20 milioni di spettatori, venne arrestato con l’accusa di far parte della camorra e di essere uno spacciatore di droga, amico e complice dei più celebri capi della criminalità organizzata degli anni Ottanta.Contro di lui c’erano i racconti di due pentiti, Pasquale Barra detto o’animale, e Giovanni Pandico, chiamato o’ pazzo.La storia del caso Tortora è la storia di indagini che non vennero fatte, di pentiti che si giurarono vendetta e morte l’un l’altro, di elastici di slip che si ruppero e costringendo una donna ad appartarsi e vedere, disse poi lei, cosa non avrebbe dovuto vedere. Ma anche di centrini da tavola realizzati all'uncinetto da un carcerato, di serate al derby club di Milano, di elezioni europee, di soldi del terremoto del 1980, di giornali che inventarono di tutto e di quattro anni di una vicenda giudiziaria che oggi, a raccontarla, pare davvero impossibile che sia potuta realmente accadere.Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
2/1/2023 • 48 minutes, 15 seconds
Parma, 4 agosto 1989 - Prima Parte
Un camper, marca Ford, con sei posti letto, bianco con strisce beige. Partì da Parma il 4 agosto 1989, destinazione Spagna, o forse Nordafrica. Comunque, vacanze. Era di proprietà di una famiglia composta da quattro persone: la famiglia Carretta.A inizio settembre quel camper non era ancora tornato. Giuseppe Carretta avrebbe dovuto riprendere il lavoro nell’azienda di cui era il contabile ma non si era fatto vivo, nemmeno una telefonata. Eppure, dissero i suoi colleghi, avvertiva anche se tardava pochi minuti. Con lui era sparita la moglie, Marta Chezzi. Neppure dei due figli, Nicola e Ferdinando, si sapeva più nulla.Iniziò la caccia al camper: per settimane arrivarono segnalazioni da tutta Italia, ma anche dall’estero. Alla fine venne ritrovato, parcheggiato in una strada di Milano. Degli occupanti non c’era nessuna traccia.Iniziò a diffondersi la voce che Giuseppe Carretta fosse scappato portando con sé 10 miliardi di lire sottratti alla sua azienda: fondi neri, e quindi non denunciati. Si disse che l’intera famiglia si fosse trasferita ai Caraibi a godersi i soldi. Che fossero tutti lontani e felici.Per quasi dieci anni i Carretta vennero segnalati in varie parti del mondo. Investigatori e giornalisti partivano alla ricerca ma ogni pista alla fine si rivelava falsa, o inconsistente.Fino a che un poliziotto inglese fermò un ragazzo che in moto, a Londra, stava facendo zig zag tra le auto…Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
1/1/2023 • 37 minutes, 21 seconds
Parma, 4 agosto 1989 - Seconda Parte
Un camper, marca Ford, con sei posti letto, bianco con strisce beige. Partì da Parma il 4 agosto 1989, destinazione Spagna, o forse Nordafrica. Comunque, vacanze. Era di proprietà di una famiglia composta da quattro persone: la famiglia Carretta.A inizio settembre quel camper non era ancora tornato. Giuseppe Carretta avrebbe dovuto riprendere il lavoro nell’azienda di cui era il contabile ma non si era fatto vivo, nemmeno una telefonata. Eppure, dissero i suoi colleghi, avvertiva anche se tardava pochi minuti. Con lui era sparita la moglie, Marta Chezzi. Neppure dei due figli, Nicola e Ferdinando, si sapeva più nulla.Iniziò la caccia al camper: per settimane arrivarono segnalazioni da tutta Italia, ma anche dall’estero. Alla fine venne ritrovato, parcheggiato in una strada di Milano. Degli occupanti non c’era nessuna traccia.Iniziò a diffondersi la voce che Giuseppe Carretta fosse scappato portando con sé 10 miliardi di lire sottratti alla sua azienda: fondi neri, e quindi non denunciati. Si disse che l’intera famiglia si fosse trasferita ai Caraibi a godersi i soldi. Che fossero tutti lontani e felici.Per quasi dieci anni i Carretta vennero segnalati in varie parti del mondo. Investigatori e giornalisti partivano alla ricerca ma ogni pista alla fine si rivelava falsa, o inconsistente.Fino a che un poliziotto inglese fermò un ragazzo che in moto, a Londra, stava facendo zig zag tra le auto…Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
1/1/2023 • 44 minutes, 55 seconds
Brembate di Sopra, 26 novembre 2010 – Prima parte
Il 26 novembre 2010, a Brembate di Sopra, a poco più di dieci chilometri da Bergamo, scomparve una ragazza di 13 anni. Si chiamava Yara Gambirasio. Era uscita di casa per andare al centro sportivo dove si allenava abitualmente: faceva parte della squadra locale di ginnastica ritmica. Quel pomeriggio era andata in palestra per consegnare alle istruttrici uno stereo che sarebbe servito per una gara, due giorni dopo. La ragazza entrò in palestra, si fermò meno di un’ora, poi venne vista uscire. Da quel momento, di lei, per tre mesi, non si seppe più nulla.Il corpo fu ritrovato il 26 febbraio 2011 in un campo di Chignolo d’Isola, a pochi chilometri da Brembate. Yara Gambirasio era stata colpita con un’arma da taglio, un coltello o un taglierino. Non morì però per le ferite: morì di freddo, in quel campo, stordita e debilitata, incapace di muoversi.Sui suoi vestiti furono trovate tracce biologiche. Iniziò così un’indagine scientifica senza precedenti in Italia. Vennero raccolti oltre ventimila campioni di DNA tra gli abitanti della zona. Fu individuato un ragazzo, poi un nucleo familiare e infine un uomo, Giuseppe Guerinoni, morto nel 1999, che secondo secondo le analisi del DNA più volte era il padre dell’assassino. Nessun profilo genetico dei suoi figli era però quello trovato sui vestiti di Yara Gambirasio. L’indagine scientifica si trasformò così in una ricerca, paese per paese, del figlio mai riconosciuto di quell’uomo. La ricerca si concluse nel giugno del 2014 con l’arresto di un uomo di 44 anni.Nel corso delle anni ci furono polemiche, errori, ma anche intuizioni. E intorno a quella indagini scientifica, a quei campioni di DNA, si aprì una disputa tra procura di Bergamo e la difesa dell’imputato che ancora non si è conclusa.Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
12/1/2022 • 43 minutes, 1 second
Brembate di Sopra, 26 novembre 2010 – Seconda parte
Il 26 novembre 2010, a Brembate di Sopra, a poco più di dieci chilometri da Bergamo, scomparve una ragazza di 13 anni. Si chiamava Yara Gambirasio. Era uscita di casa per andare al centro sportivo dove si allenava abitualmente: faceva parte della squadra locale di ginnastica ritmica. Quel pomeriggio era andata in palestra per consegnare alle istruttrici uno stereo che sarebbe servito per una gara, due giorni dopo. La ragazza entrò in palestra, si fermò meno di un’ora, poi venne vista uscire. Da quel momento, di lei, per tre mesi, non si seppe più nulla.Il corpo fu ritrovato il 26 febbraio 2011 in un campo di Chignolo d’Isola, a pochi chilometri da Brembate. Yara Gambirasio era stata colpita con un’arma da taglio, un coltello o un taglierino. Non morì però per le ferite: morì di freddo, in quel campo, stordita e debilitata, incapace di muoversi.Sui suoi vestiti furono trovate tracce biologiche. Iniziò così un’indagine scientifica senza precedenti in Italia. Vennero raccolti oltre ventimila campioni di DNA tra gli abitanti della zona. Fu individuato un ragazzo, poi un nucleo familiare e infine un uomo, Giuseppe Guerinoni, morto nel 1999, che secondo secondo le analisi del DNA più volte era il padre dell’assassino. Nessun profilo genetico dei suoi figli era però quello trovato sui vestiti di Yara Gambirasio. L’indagine scientifica si trasformò così in una ricerca, paese per paese, del figlio mai riconosciuto di quell’uomo. La ricerca si concluse nel giugno del 2014 con l’arresto di un uomo di 44 anni.Nel corso delle anni ci furono polemiche, errori, ma anche intuizioni. E intorno a quella indagini scientifica, a quei campioni di DNA, si aprì una disputa tra procura di Bergamo e la difesa dell’imputato che ancora non si è conclusa.Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
12/1/2022 • 54 minutes, 21 seconds
Ladispoli, 17 maggio 2015 – Prima parte
Nella notte tra il 17 e il 18 ottobre 2015 un ragazzo di vent’anni, Marco Vannini, fu raggiunto da un colpo di pistola mentre era a casa della sua fidanzata, Martina Ciontoli, a Ladispoli, in provincia di Roma. Il proiettile trapassò il braccio destro, entrò nell’emitorace, attraversò il polmone destro, poi quello sinistro e si fermò nel pericardio, la membrana che circonda il cuore. La famiglia Ciontoli chiamò il 118 oltre mezz’ora dopo lo sparo annullando però, nella stessa telefonata, la richiesta di intervento. Il 118 venne chiamato di nuovo molti minuti più tardi. Furono due telefonate surreali, in cui i Ciontoli dissero molte bugie cercando di mascherare ciò che era realmente accadutoMarco Vannini morì quattro ore dopo essere stato ferito. Le perizie stabilirono che, se fosse stato soccorso tempestivamente, si sarebbe potuto salvare: nel suo torace fu trovata una quantità di sangue tra il litro e mezzo e i due litri. Morì lentamente, dissanguato dall’emorragia.Le indagini e i processi cercarono di ricostruire ciò che avvenne a Ladispoli, nella casa della famiglia Ciontoli, la notte in cui Marco Vannini venne colpito dal proiettile sparato da una pistola marca Beretta calibro nove. Tutto si basava sulle dichiarazioni della famiglia Ciontoli, sulle contraddizioni, le evidenti menzogne. Soprattutto il processo cercò di chiarire cosa avvenne nei minuti, nelle ore e poi nei giorni successivi quando un intero nucleo familiare raccontò che Marco era caduto dalle scale, quindi che aveva avuto un attacco di panico perché dalla pistola era uscito un colpo d’aria, poi che si era ferito con un pettine e infine che una pistola aveva sparato ma il colpo era partito praticamente da solo. E che Marco Vannini era stato ferito solo di striscio. Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
11/1/2022 • 44 minutes, 38 seconds
Ladispoli, 17 maggio 2015 – Seconda parte
Nella notte tra il 17 e il 18 ottobre 2015 un ragazzo di vent’anni, Marco Vannini, fu raggiunto da un colpo di pistola mentre era a casa della sua fidanzata, Martina Ciontoli, a Ladispoli, in provincia di Roma. Il proiettile trapassò il braccio destro, entrò nell’emitorace, attraversò il polmone destro, poi quello sinistro e si fermò nel pericardio, la membrana che circonda il cuore. La famiglia Ciontoli chiamò il 118 oltre mezz’ora dopo lo sparo annullando però, nella stessa telefonata, la richiesta di intervento. Il 118 venne chiamato di nuovo molti minuti più tardi. Furono due telefonate surreali, in cui i Ciontoli dissero molte bugie cercando di mascherare ciò che era realmente accadutoMarco Vannini morì quattro ore dopo essere stato ferito. Le perizie stabilirono che, se fosse stato soccorso tempestivamente, si sarebbe potuto salvare: nel suo torace fu trovata una quantità di sangue tra il litro e mezzo e i due litri. Morì lentamente, dissanguato dall’emorragia.Le indagini e i processi cercarono di ricostruire ciò che avvenne a Ladispoli, nella casa della famiglia Ciontoli, la notte in cui Marco Vannini venne colpito dal proiettile sparato da una pistola marca Beretta calibro nove. Tutto si basava sulle dichiarazioni della famiglia Ciontoli, sulle contraddizioni, le evidenti menzogne. Soprattutto il processo cercò di chiarire cosa avvenne nei minuti, nelle ore e poi nei giorni successivi quando un intero nucleo familiare raccontò che Marco era caduto dalle scale, quindi che aveva avuto un attacco di panico perché dalla pistola era uscito un colpo d’aria, poi che si era ferito con un pettine e infine che una pistola aveva sparato ma il colpo era partito praticamente da solo. E che Marco Vannini era stato ferito solo di striscio. Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
11/1/2022 • 49 minutes, 14 seconds
Cogne, 30 gennaio 2002 – Prima parte
Il 30 gennaio 2002, alle 8.27 di mattina, giunse una telefonata al 118. Proveniva d Montroz, una frazione di Cogne, in Valle d’Aosta. Una donna disse urlando che aveva bisogno di aiuto perché suo figlio stava vomitando sangue dalla bocca. Quando arrivarono i soccorsi si resero conto che c’era molto di più, e molto peggio. Il bambino non stava vomitando sangue. Aveva una profonda ferita alla testa da cui fuoriusciva materia cerebrale: qualcuno l’aveva colpito più volte, con estrema violenza. Quel bambino si chiamava Samuele Lorenzi, aveva tre anni: venne dichiarato morto appena giunto all’ospedale di Aosta. La donna che aveva chiamato il 118 era sua madre, Annamaria Franzoni. Le indagini che seguirono furono soprattutto basate su perizie scientifiche, la scena del delitto vene ricostruita, le tracce di sangue analizzate secondo una tecnica innovativa per l’Italia, la bloodstain pattern analysis. Ci furono scontri potenti tra l’avvocato difensore, Carlo Taormina, e chi conduceva le indagini e qualcuno tentò anche di inventare dal nulla delle prove. La televisione entrò prepotentemente nella strategia difensiva mentre attorno alla figura di Annamaria Franzoni si crearono due schieramenti, innocentisti e colpevolisti. E ancora oggi, a vent’anni di distanza, ci sono dubbi e domande senza risposta.Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
10/1/2022 • 47 minutes, 29 seconds
Cogne, 30 gennaio 2002 – Seconda parte
Il 30 gennaio 2002, alle 8.27 di mattina, giunse una telefonata al 118. Proveniva d Montroz, una frazione di Cogne, in Valle d’Aosta. Una donna disse urlando che aveva bisogno di aiuto perché suo figlio stava vomitando sangue dalla bocca. Quando arrivarono i soccorsi si resero conto che c’era molto di più, e molto peggio. Il bambino non stava vomitando sangue. Aveva una profonda ferita alla testa da cui fuoriusciva materia cerebrale: qualcuno l’aveva colpito più volte, con estrema violenza. Quel bambino si chiamava Samuele Lorenzi, aveva tre anni: venne dichiarato morto appena giunto all’ospedale di Aosta. La donna che aveva chiamato il 118 era sua madre, Annamaria Franzoni. Le indagini che seguirono furono soprattutto basate su perizie scientifiche, la scena del delitto vene ricostruita, le tracce di sangue analizzate secondo una tecnica innovativa per l’Italia, la bloodstain pattern analysis. Ci furono scontri potenti tra l’avvocato difensore, Carlo Taormina, e chi conduceva le indagini e qualcuno tentò anche di inventare dal nulla delle prove. La televisione entrò prepotentemente nella strategia difensiva mentre attorno alla figura di Annamaria Franzoni si crearono due schieramenti, innocentisti e colpevolisti. E ancora oggi, a vent’anni di distanza, ci sono dubbi e domande senza risposta.Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
10/1/2022 • 47 minutes, 30 seconds
Veneto e Friuli Venezia Giulia, 1994-2006 – Prima parte
Il 21 agosto 1994 a Sacile, in provincia di Pordenone, durante la sagra degli osei, una fiera antichissima, esplose una bomba che ferì leggermente alcune persone. Era semplice polvere da sparo in un tubo. La notizia passò quasi inosservata, in fondo nessuno aveva riportato danni troppo seri. E nessuno poteva immaginare che nelle settimane seguenti a quelle bombe ne sarebbero seguite altre, e poi altre ancora negli anni successivi. Dal 1994 al 2006 in Veneto e Friuli Venezia Giulia esplosero bombe sempre più sofisticate: bombe trappola, nascoste in ovetti Kinder, barattoli di Nutella, tubetti di maionese, candele. Vennero ferite moltissime persone e a lungo in tanti ebbero paura di cose consuete, come fare la spesa al supermercato, andare in chiesa, aprire un barattolo. Indagarono tante procure, Venezia, Treviso, Pordenone, Udine, Trieste. E tanti investigatori che spesso non si parlavano tra di loro. Ci furono fughe di notizie, vennero tracciati molti profili psicologici. Una persona fu sospettata, restò al centro delle indagini per cinque anni. Si scoprì che una prova, la cosiddetta “pistola fumante” che avrebbe dovuto dimostrare la sua colpevolezza, era in realtà stata manomessa. E ancora oggi non sappiamo chi abbia costruito e messo tutte quelle bombe, se fosse una persona sola, se fossero tanti. E perché.Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
9/1/2022 • 40 minutes, 57 seconds
Veneto e Friuli Venezia Giulia, 1994-2006 – Seconda parte
Il 21 agosto 1994 a Sacile, in provincia di Pordenone, durante la sagra degli osei, una fiera antichissima, esplose una bomba che ferì leggermente alcune persone. Era semplice polvere da sparo in un tubo. La notizia passò quasi inosservata, in fondo nessuno aveva riportato danni troppo seri. E nessuno poteva immaginare che nelle settimane seguenti a quelle bombe ne sarebbero seguite altre, e poi altre ancora negli anni successivi. Dal 1994 al 2006 in Veneto e Friuli Venezia Giulia esplosero bombe sempre più sofisticate: bombe trappola, nascoste in ovetti Kinder, barattoli di Nutella, tubetti di maionese, candele. Vennero ferite moltissime persone e a lungo in tanti ebbero paura di cose consuete, come fare la spesa al supermercato, andare in chiesa, aprire un barattolo. Indagarono tante procure, Venezia, Treviso, Pordenone, Udine, Trieste. E tanti investigatori che spesso non si parlavano tra di loro. Ci furono fughe di notizie, vennero tracciati molti profili psicologici. Una persona fu sospettata, restò al centro delle indagini per cinque anni. Si scoprì che una prova, la cosiddetta “pistola fumante” che avrebbe dovuto dimostrare la sua colpevolezza, era in realtà stata manomessa. E ancora oggi non sappiamo chi abbia costruito e messo tutte quelle bombe, se fosse una persona sola, se fossero tanti. E perché.Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
9/1/2022 • 49 minutes, 42 seconds
Lombardia, 1998-2004 – Prima parte
Nel racconto di delitti e casi di cronaca nera, spesso sono i media a dare nomi e nomignoli ai protagonisti delle vicende: l’espressione “Bestie di Satana”, invece, se la diedero i protagonisti stessi. Un gruppo di ragazzi della provincia di Varese che negli anni Novanta prese a frequentarsi tra la fiera di Senigallia, un pub a Milano famoso per la musica metal, i boschi di Somma Lombardo, e che fu considerato responsabile di almeno tre omicidi e un suicidio indotto tra il 1998 e il 2004. È una vicenda che oscilla tra l’inquietante e il grottesco, prima di diventare tragica. All’inizio prevale il grottesco: le camerette da ragazzini pitturate tutte di nero, le teste di caprone in plastica, gli scambi di gocce di sangue, le frasi lette al contrario, le prove di resistenza al dolore con le sigarette spente sulle braccia, i nomi di battaglia, i riti in cui veniva evocato un improbabile essere demoniaco. C’erano anche sostanze stupefacenti, moltissime, usate fino al punto di perdere lucidità e consapevolezza delle proprie azioni: ed è lì che la storia da grottesca diventa prima inquietante e poi tragica, portando a omicidi, torture e suicidi: «Delitti feroci senza alcun senso», dice Stefano Nazzi. «Erano dieci-quindici. Qualcuno era un capo, qualcuno un gregario e qualcuno è scappato in fretta. Hanno fatto del male per il gusto di fare del male».Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
8/1/2022 • 46 minutes, 6 seconds
Lombardia, 1998-2004 – Seconda parte
Nel racconto di delitti e casi di cronaca nera, spesso sono i media a dare nomi e nomignoli ai protagonisti delle vicende: l’espressione “Bestie di Satana”, invece, se la diedero i protagonisti stessi. Un gruppo di ragazzi della provincia di Varese che negli anni Novanta prese a frequentarsi tra la fiera di Senigallia, un pub a Milano famoso per la musica metal, i boschi di Somma Lombardo, e che fu considerato responsabile di almeno tre omicidi e un suicidio indotto tra il 1998 e il 2004. È una vicenda che oscilla tra l’inquietante e il grottesco, prima di diventare tragica. All’inizio prevale il grottesco: le camerette da ragazzini pitturate tutte di nero, le teste di caprone in plastica, gli scambi di gocce di sangue, le frasi lette al contrario, le prove di resistenza al dolore con le sigarette spente sulle braccia, i nomi di battaglia, i riti in cui veniva evocato un improbabile essere demoniaco. C’erano anche sostanze stupefacenti, moltissime, usate fino al punto di perdere lucidità e consapevolezza delle proprie azioni: ed è lì che la storia da grottesca diventa prima inquietante e poi tragica, portando a omicidi, torture e suicidi: «Delitti feroci senza alcun senso», dice Stefano Nazzi. «Erano dieci-quindici. Qualcuno era un capo, qualcuno un gregario e qualcuno è scappato in fretta. Hanno fatto del male per il gusto di fare del male».Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
8/1/2022 • 49 minutes, 44 seconds
Avetrana, 26 agosto 2010 – Prima parte
Il 26 agosto 2010 una ragazza di quindici anni, Sarah Scazzi, scomparve ad Avetrana, in provincia di Taranto, in Puglia. Con le ricerche della ragazza, che fu trovata morta in un pozzo il successivo 6 ottobre, iniziò un clamore mediatico con pochi precedenti persino per la ricca storia italiana di rapporti morbosi tra la stampa, la televisione e chi indaga sui casi di cronaca nera, culminato nell’annuncio del ritrovamento del cadavere di Scazzi in diretta televisiva mentre sua madre era in collegamento. Per mesi migliaia di persone si misero in viaggio verso Avetrana per curiosare tra i luoghi della scomparsa e dell’omicidio, mentre decine e decine di testimoni più o meno credibili offrirono ogni pomeriggio in televisione le loro testimonianze, spesso a pagamento, spesso contraddicendosi da un momento all’altro, pur di ottenere qualche soldo e un po’ di visibilità: a questa cacofonia di dimensioni inedite partecipavano anche le persone indagate dalla procura, che parlavano contemporaneamente con gli inquirenti e con i media.Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
7/1/2022 • 42 minutes, 21 seconds
Avetrana, 26 agosto 2010 – Seconda parte
Il 26 agosto 2010 una ragazza di quindici anni, Sarah Scazzi, scomparve ad Avetrana, in provincia di Taranto, in Puglia. Con le ricerche della ragazza, che fu trovata morta in un pozzo il successivo 6 ottobre, iniziò un clamore mediatico con pochi precedenti persino per la ricca storia italiana di rapporti morbosi tra la stampa, la televisione e chi indaga sui casi di cronaca nera, culminato nell’annuncio del ritrovamento del cadavere di Scazzi in diretta televisiva mentre sua madre era in collegamento. Per mesi migliaia di persone si misero in viaggio verso Avetrana per curiosare tra i luoghi della scomparsa e dell’omicidio, mentre decine e decine di testimoni più o meno credibili offrirono ogni pomeriggio in televisione le loro testimonianze, spesso a pagamento, spesso contraddicendosi da un momento all’altro, pur di ottenere qualche soldo e un po’ di visibilità: a questa cacofonia di dimensioni inedite partecipavano anche le persone indagate dalla procura, che parlavano contemporaneamente con gli inquirenti e con i media.Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
7/1/2022 • 49 minutes, 4 seconds
Potenza, 12 settembre 1993 – Prima parte
La storia di questo mese è quella di Elisa Claps, una ragazza di sedici anni scomparsa a Potenza il 12 settembre 1993 e la cui morte fu accertata soltanto nel 2010, in un caso giudiziario segnato da una montagna di insabbiamenti, depistaggi e bugie – pronunciate sia dalle persone coinvolte che da quelle non coinvolte nel processo – e che riguardò sia l’Italia che il Regno Unito. E il sottotetto di una chiesa.Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
6/1/2022 • 41 minutes, 59 seconds
Potenza, 12 settembre 1993 – Seconda parte
La storia di questo mese è quella di Elisa Claps, una ragazza di sedici anni scomparsa a Potenza il 12 settembre 1993 e la cui morte fu accertata soltanto nel 2010, in un caso giudiziario segnato da una montagna di insabbiamenti, depistaggi e bugie – pronunciate sia dalle persone coinvolte che da quelle non coinvolte nel processo – e che riguardò sia l’Italia che il Regno Unito. E il sottotetto di una chiesa.Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
6/1/2022 • 49 minutes, 14 seconds
Erba, 11 dicembre 2006 – Prima parte
La sera dell’11 dicembre 2006 in un condominio di Erba furono uccise quattro persone, tra cui un bambino di due anni. La storia di quella strage ottenne grandissime attenzioni da parte dei media, che inizialmente trattarono come il principale sospettato – quando non già acclarato colpevole – un uomo tunisino rivelatosi poi innocente. Furono invece indagati e condannati in via definitiva all’ergastolo Olindo Romano e Rosa Bazzi, i vicini di casa delle persone uccise. Molti oggi ricordano la strage di Erba per la sua efferatezza, per il clima di odio e le conseguenze estreme che seguirono delle banali liti condominiali e per il rapporto morboso dei due coniugi poi condannati. Ma c’è molto altro di notevole, nelle pieghe di questa storia: interrogatori e perquisizioni condotte in modi rivedibili, l’unico fondamentale testimone oculare che cambia improvvisamente la sua versione dei fatti, una confessione piena di dettagli poi ritrattata.Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
5/1/2022 • 43 minutes, 17 seconds
Erba, 11 dicembre 2006 – Seconda parte
La sera dell’11 dicembre 2006 in un condominio di Erba furono uccise quattro persone, tra cui un bambino di due anni. La storia di quella strage ottenne grandissime attenzioni da parte dei media, che inizialmente trattarono come il principale sospettato – quando non già acclarato colpevole – un uomo tunisino rivelatosi poi innocente. Furono invece indagati e condannati in via definitiva all’ergastolo Olindo Romano e Rosa Bazzi, i vicini di casa delle persone uccise. Molti oggi ricordano la strage di Erba per la sua efferatezza, per il clima di odio e le conseguenze estreme che seguirono delle banali liti condominiali e per il rapporto morboso dei due coniugi poi condannati. Ma c’è molto altro di notevole, nelle pieghe di questa storia: interrogatori e perquisizioni condotte in modi rivedibili, l’unico fondamentale testimone oculare che cambia improvvisamente la sua versione dei fatti, una confessione piena di dettagli poi ritrattata.Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
5/1/2022 • 58 minutes, 4 seconds
Garlasco, 13 agosto 2007 – Prima parte
Il 13 agosto del 2007 a Garlasco, un paese in provincia di Pavia, una ragazza di 26 anni di nome Chiara Poggi fu uccisa nella sua abitazione. L’omicidio della ragazza ottenne grandi attenzioni nell’opinione pubblica, alimentando e a sua volta nutrendosi di un clamore mediatico che avrebbe segnato la successiva fase delle indagini. I processi che ne seguirono furono tra i primi in Italia basati interamente sulle perizie scientifiche, e per questo sono diventati un caso emblematico: per come le perizie abbiano dato risultati contrastanti e spesso opposti, ma anche per i moltissimi errori commessi durante le indagini e per la lunghezza dell’iter giudiziario.Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
4/1/2022 • 52 minutes, 50 seconds
Garlasco, 13 agosto 2007 – Seconda parte
Il 13 agosto del 2007 a Garlasco, un paese in provincia di Pavia, una ragazza di 26 anni di nome Chiara Poggi fu uccisa nella sua abitazione. L’omicidio della ragazza ottenne grandi attenzioni nell’opinione pubblica, alimentando e a sua volta nutrendosi di un clamore mediatico che avrebbe segnato la successiva fase delle indagini. I processi che ne seguirono furono tra i primi in Italia basati interamente sulle perizie scientifiche, e per questo sono diventati un caso emblematico: per come le perizie abbiano dato risultati contrastanti e spesso opposti, ma anche per i moltissimi errori commessi durante le indagini e per la lunghezza dell’iter giudiziario.Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.